La posizione del governo Renzi sul referendum anti-trivelle del 17 aprile – con cui si vuole abrogare la norma che consente di sfruttare i giacimenti entro le dodici miglia dalla costa fino al loro esaurimento, e non fino al termine della concessione – è contraria all’interesse pubblico. L’allarmismo suscitato dal governo e dal Pd, che incita i cittadini a disertare le urne per far fallire il referendum, è a mio modo di vedere inaccettabile. Il governo agita in modo propagandistico lo spettro della disoccupazione come conseguenza della chiusura anticipata dei giacimenti e sostiene che la minore produzione di idrocarburi che deriverebbe dal “si” al referendum provocherebbe un maggior traffico di petroliere nel Mediterraneo e un aggravio di costi per importare via nave ciò che oggi produciamo in casa. Ma a fomentare il catastrofismo dietro le quinte della politica nazionale sono – come spesso è accaduto nella storia del nostro paese – i petrolieri, i difensori delle fonti di energia di origine fossile, di cui questo governo sembra succube; e quando parliamo di petrolieri ci riferiamo anzitutto all’Eni.

E’ pretestuoso sostenere che il referendum stia facendo fuggire gli investimenti nel campo della ricerca di idrocarburi. La quota estratta dai giacimenti entro le dodici miglia rappresenta una percentuale molto bassa dei consumi italiani di petrolio e di gas (tra l’1 e il 2 per cento), e non mi risulta che l’Adriatico e il Mar di Sicilia siano un nuovo Kuwait. Riconvertire le fonti  più inquinanti con quelle rinnovabili non equivale a sopprimere il petrolio o ad abolire l’automobile: serve a programmare un nuovo ciclo dell’economia con nuovi investimenti dove abbiano sempre più spazio le energie pulite. Significa trasferire capitali da un settore industriale non più idoneo a garantire uno sviluppo sostenibile ad un altro capace di assicurare maggiore compatibilità con l’ambiente e con la salute.  Significa incentivare lo sviluppo di nuove imprese, nuova occupazione, nuovi modelli di consumo. Da questo punto di vista il gas naturale, la meno inquinante tra le fonti fossili e quindi la più accettata a livello sociale, potrà continuare a svolgere, in questa lunga fase di transizione dal vecchio al nuovo, una importante funzione di raccordo.

Gli investimenti nel settore petrolifero non fuggono per il referendum anti-trivelle, ma per le errate politiche industriali dell’Eni costretta ad alzare bandiera bianca sulla raffinazione e sulla chimica di base e a dismetterne progressivamente le attività con l’avallo di questo governo.

E’ pretestuoso l’allarmismo sull’occupazione e sui consumi nazionali di idrocarburi, perché, anche nel caso di vittoria dei “si”, gli operatori continuerebbero a pompare petrolio e gas fino allo scadere delle concessioni, ovvero per molti e molti anni ancora. Piuttosto, Renzi spieghi agli elettori perché sarebbe una sciagura nazionale “rottamare” le trivelle dopo avere varata una legge che impedisce il rilascio di nuove concessioni entro il limite delle acque territoriali, e perché invece è giusto avallare opache operazioni nella petrolchimica dell’Eni che potrebbero portare al licenziamento di migliaia di lavoratori.

La verità è che le compagnie hanno tutto l’interesse a prolungare i tempi di sfruttamento dei giacimenti per versare meno royalty allo Stato. Il perché è semplice. Lo Stato italiano concede ai petrolieri franchigie particolarmente generose, cioè quote di produzione esenti da royalty. Se il giacimento può essere sfruttato solo per la durata della concessione bisogna aumentare i volumi annui di produzione, sforando le franchigie e pagando più royalty allo Stato. Se invece il giacimento può essere sfruttato in un arco di tempo molto più lungo, si può mantenerne la produzione annua a un livello magari inferiore a quello in franchigia, senza dover corrispondere un centesimo alle casse pubbliche.  Sono questi gli interessi che Renzi intende tutelare?

Sfogliando la collezione de “Il Mondo” di Mario Pannunzio mi sono imbattuto in un vecchissimo articolo di Ernesto Rossi, grande fustigatore dei monopoli privati e del capitalismo senza capitali, che fa al caso nostro. Il pezzo, dal titolo “Idrocarburi cerebrini”, è del 18 agosto 1951. Era da poco iniziato l’iter del disegno di legge che sarebbe sfociato nella costituzione dell’Eni e Rossi sottolineava il valore strategico del gas naturale, di cui all’epoca i privati avrebbero voluto appropriarsi. Rossi scriveva di “forze occulte” che si contrapponevano alla nascita dell’Eni e all’avanzata di una fonte di energia a basso costo (il metano, appunto) che avrebbe potuto essere impiegata nella produzione termoelettrica e che fu determinante per il decollo economico dell’Italia. A mestare dietro le quinte, mentre Enrico Mattei si batteva in parlamento per la nascita dell’Eni, c’era la Standard Oil (l’odierna Exxon), c’erano i grandi privati della Confindustria quali la Edison e la Montecatini “abituati a pascolare nelle riserve monopolistiche cintate in loro difesa dallo Stato” e disturbati dalla nascita di un ente concorrente che li avrebbe costretti a svalutare i capitali investiti nelle raffinerie, nelle centrali idroelettriche e nelle industrie che impiegavano combustibili fossili. Le forze della conservazione tentarono a più riprese di appropriarsi della rendita metanifera della valle Padana, lasciando allo Stato le briciole, ma dopo la costituzione dell’Eni, che ebbe riconosciuta l’esclusiva delle ricerche, la storia andò in senso contrario. Mattei, con il sostegno di una parte della Dc e con l’astensione del Pci, diede vita a un grande progetto di cambiamento e di sviluppo economico-sociale, ponendo al servizio del paese, attraverso l’Eni, la fonte di energia più pulita e meno costosa allora conosciuta.

Oggi le parti si sono invertite. Sono il governo Renzi e l’Eni a difendere lo status quo e a sostenersi reciprocamente: da un lato una maggioranza di larghe intese trainata dagli epigoni del centro-sinistra, ma con il sostegno determinante di figure impresentabili del centro-destra; dall’altro la più grande società industriale dello Stato fiaccata dalle interferenze politiche, dai personalismi del periodo berlusconiano, dalle inchieste per corruzione, dal crollo dei prezzi del greggio e da errori di politica industriale. Controllore e controllato accomunati da identico destino dopo l’inchiesta della procura di Potenza sui giacimenti della Val d’Agri: presunti favori resi alla Total attraverso il compagno della (ex) ministra Federica Guidi, ruolo ambiguo della ministra Maria Elena Boschi, ancora da chiarire, e presunte responsabilità dell’Eni e dei suoi dirigenti del Centro oli di Viggiano i quali avrebbero alterato le informazioni sulle emissioni di inquinanti per risparmiare sui sistemi di smaltimento.