Quando ci lamentiamo del finanziamento pubblico ai partiti dovremmo sapere cosa succede nei paesi come gli Stati Uniti d’America dove la politica-spettacolo è finanziata dai privati.
Uno spaccato che ci mostra come in America la politica sia ostaggio di una élite sempre più ristretta è la raccolta fondi per la prossima campagna elettorale organizzata da Joe Biden al Radio city music hall di New York (il più grande teatro al chiuso del mondo) il 28 marzo 2024: alla quale, a sostegno del presidente uscente, hanno partecipato i due “past president” democratici Bill Clinton e Barak Obama (vedi foto).
L’iniziativa, a cui erano presenti cinquemila invitati, ha fruttato 26 milioni di dollari, tirati su in un’unica serata, con prezzi del biglietto che oscillavano da 100mila a 500mila dollari e con l’ingresso vietato ai giornalisti rompiballe tranne ai pochi raccomandati dalla Casa Bianca. La somma si aggiunge ai 155 milioni di dollari già raccolti fino allo scorso febbraio da Biden; a confronto dei quali i 37 milioni ricevuti dal comitato di azione politica di “Save America”, che sostiene Donald Trump, sembrano spiccioli.
Coloro che hanno partecipato a questo “prestigioso ed esclusivo” evento politico, così definito, avevano a disposizione tre opzioni: un biglietto da 100mila dollari per ricchi di fascia bassa, che dava diritto a scattare una foto con i tre presidenti; un biglietto da 250mila dollari per ricchi di fascia media, che dava diritto a partecipare a una riunione riservata; un biglietto top di gamma da 500mila dollari per ricchi sfondati, per poter assistere a una riunione ancora più esclusiva.
Tutti hanno potuto ammirare nella grande sala del teatro, senza sovrapprezzo, le celebrità che offrivano il loro appoggio a Biden: Ben Platt, Cynthia Erivo, Queen Latifah, Lea Michele, Lizzo.
L’immagine di un partito forte e coeso intorno a Biden, evocata dalla presenza degli altri due ex presidenti, è stata tuttavia offuscata dai manifestanti democratici pacifisti radunati sotto la pioggia all’esterno del grande edificio al centro di Manhattan, di fronte a un massiccio spiegamento di polizia, i quali chiedevano a gran voce il cessate-il-fuoco nella Striscia di Gaza e la fine del massacro di civili palestinesi perpetrato dagli israeliani con le armi fornite loro dall’amministrazione democratica Usa.
Anche tra i presenti si è levato qualche urlo di protesta durante l’evento clou della serata: l’intervista a tre tra Biden, Clinton e Obama. Qualche guastafeste, prontamente portato via dalla sicurezza, si è alzato, accusando il presidente di essere un criminale di guerra con le mani sporche di sangue. A questo proposito hanno destato ulteriore indignazione nell’elettorato democratico le recenti notizie del Washington Post sul trasferimento alla chetichella al governo Netanyahu di aerei da combattimento e di bombe ad alto potenziale distruttivo (1.800 ordigni Mk 84 a caduta libera, da quasi una tonnellata ciascuna) proprio mentre l’amministrazione Biden si mostrava preoccupata in pubblico per l’operazione militare su Rafah, dove è concentrato un milione di palestinesi, che potrebbe essere lanciata a breve da Israele e trasformarsi in una nuova carneficina.
Per di più, mentre al Radio city music hall i Comitati di azione politica (Politica action commettee) pro Biden ricevevano versamenti per milioni di dollari, la Corte internazionale di giustizia (il cosiddetto Tribunale penale di L’Aia) metteva in guardia Israele contro la carestia provocata nell’enclave palestinese dal blocco delle derrate alimentari, delle forniture di acqua e di altri beni di prima necessità vitali per la sopravvivenza della popolazione.
Clinton e Obama hanno comunque difeso la politica di Biden su Gaza e dichiarato il loro sostegno a Israele, anche se si sono espressi a favore della soluzione dei due Stati, che lo stesso Israele però respinge.
Da una festa politica all’altra. Il 6 aprile nella proprietà di Trump a Mar-a-Lago, in Florida, lo sfidante repubblicano – favorito nella corsa elettorale, ma finora sfavorito nella raccolta di liquidità a sostegno delle sempre più onerose campagne americane – ripartirà con la sua raccolta fondi alla quale hanno già detto che interverranno il magnate del petrolio Harold Hamm, fondatore della Continental Resources (il negazionismo di “The Donald” sui cambiamenti climatici è cosa risaputa), il magnate dello zucchero nativo di Cuba José “Pepe” Fanjul, i magnati dell’immobiliare Howard Lutnik e Steve Witkoff, Rebekah Mercer e il padre Robert, personaggio chiave della precedente vittoria di Trump, finanziere di estrema destra che ha fondato Cambridge Analytica ed è tra i primi tre finanziatori del partito repubblicano, l’uomo d’affari Todd Ricketts, la cui famiglia possiede la squadra di baseball dei Chicago Cubs, il banchiere d’affari Warren Stephens, il magnate dei casino e degli alberghi Steve Wynn e il magnate dei fondi speculativi John Paulson.
Se nel più grande paese del campo occidentale la politica è ridotta a questo, siamo fritti. Qui non è questione di democratici o repubblicani. Con questo sistema di finanziamento delle elezioni, che si somma a un sistema elettorale disincentivante per la massa dei cittadini, a una recrudescenza del razzismo, a disuguaglianze sempre più esasperate, i margini delle diverse amministrazioni per attuare politiche sociali si sono ridotti al minimo, perché gli interessi particolari dettati dai grandi donatori di fondi e dalle grandi lobby economiche tendono a soffocare l’interesse generale. La politica è sempre più un affare per ricchi negli Stati Uniti, con buona pace della democrazia (letteralmente, potere del popolo).
Nonostante il paese conservi – secondo lo storico Mario Del Pero – la supremazia economica, monetaria e militare, le sue istituzioni appaiono in crisi e a rischio di tenuta, la sua credibilità internazionale sembra compromessa dalle varie avventure militari finite male, dal tentato colpo di Stato del 2021 a Capitol Hill, dalla tendenza a considerare i problemi del mondo solo dal punto di vista americano, e confermata dalla progressiva perdita di egemonia al di fuori dei propri confini.