Bel colpo, quello sui Panama papers, la più grande soffiata nella storia del giornalismo mondiale trasformata in un’inchiesta transnazionale dai colleghi dell’International consortium of investigative journalists e per l’Italia dal settimanale “L’Espresso”: undici milioni e mezzo di file segreti su oltre 200mila società offshore costituite dalla panamense Mossack & Fonseca, una delle principali centrali di occultamento di capitali. Capi di Stato come Vladimir Putin, leader politici, primi ministri, magnati dell’industria, imprenditori, rispettabili professionisti, che tutti insieme nei rispettivi ambiti di lavoro appaiono impegnati nella lotta all’evasione e nella difesa dei diritti sono i primi a servirsi dei paradisi fiscali e penali (gli stessi utilizzati dalla criminalità organizzata) per dirottarvi e nascondervi gli ingenti patrimoni finanziari costituiti in modo illecito, a danno di quella collettività di cui si ergono a paladini. E’ il capitalismo, bellezza. Anzi, è la fine della democrazia. La concentrazione della ricchezza in mano a una sparuta minoranza della popolazione mondiale, una élite che muove le leve della politica e dell’economia al di fuori di qualsiasi controllo, non può che provocare una deriva autoritaria e antidemocratica, quella che gli studiosi chiamano post-democrazia.
Fa sorridere sentir dire a un ministro “chi non ha aderito alla voluntary disclosure adesso pagherà caro”. Ma non c’è sanatoria fiscale che tenga in un mondo in cui i partiti e la politica sono asserviti agli interessi delle lobby, delle multinazionali, delle banche, e il governo Renzi non fa certo eccezione. I ruoli si sono invertiti, il potere ha cambiato fisionomia: è il capitale finanziario a governare e a determinare le scelte politiche, i partiti non contano niente. Lo scandalo Mossack & Fonseca scandalizza solo gli ingenui e i benpensanti, è la prova empirica di come funziona questo sistema su scala internazionale. La società panamense Mossack & Fonseca esiste da decenni, è conosciuta dai governi e dai servizi segreti americani, che forse l’hanno scaricata per aver favorito qualche cliente sgradito come il presidente siriano Assad; era un marchio e una garanzia fino a qualche giorno fa, così come sono un marchio e una garanzia le migliaia tra finanziarie, banche, società di gestione, società di fiscalità internazionale residenti in Stati offshore, che operano a contatto di gomito con i più grandi istituti di credito europei e statunitensi (sembra siano più di 500 le banche in rapporti con Mossack & Fonseca).
Ora i giornali svizzeri evidenziano il ruolo del quarantaduenne avvocato zurighese Christoph Zollinger, uno dei tre dirigenti della Mossack & Fonseca che sarebbe all’origine della fuga di notizie alla stampa. Ma la Svizzera farebbe meglio a tacere. Semmai dovrebbe guardare al proprio interno, non solo perché molti avvocati ticinesi di grido che oggi prendono le distanze dalla Mossack & Fonseca gestivano fino a qualche anno fa, attraverso i propri studi, società panamensi costituite per eludere l’euro-ritenuta, ma anche perché ai servizi della Mossack & Fonseca ricorrevano parecchie banche elvetiche e filiali di banche europee domiciliate in Svizzera (tra cui molte tedesche) sotto l’occhio per niente attento delle autorità di vigilanza.
Peraltro fino a qualche anno fa l’agente della Mossack & Fonseca a Lugano era un italiano, Andrea De Grandi, il quale ha patteggiato un anno e quattro mesi per avere concorso alla bancarotta della Parmalat. De Grandi, indagato dalla procura federale svizzera, era uno dei fiduciari di cui si serviva l’ex manager di Bank of America di Milano Luca Sala per riciclare decine di milioni di dollari sottratti alla vecchia Parmalat. Per questi fatti, Sala sarà processato a Bellinzona in agosto. De Grandi, ex manager della Mitsui di Londra passato all’Imi del Lussemburgo per poi finire alla Mossack & Fonseca di Lugano, era in stretto contatto con persone vicine all’Opus Dei, l’organizzazione della chiesa cattolica formata in prevalenza da laici (numerari e soprannumerari), che opera come prelatura personale del papa e annovera tra i propri associati esponenti del mondo economico-finanziario. Con Angelo Mincuzzi ne abbiamo scritto in “Opus Dei, il segreto dei soldi. Dentro i misteri dell’omicidio Roveraro”, edito da Feltrinelli nel 2011. Nel libro inchiesta che prende spunto dal brutale assassinio del banchiere dell’Opera Gianmario Roveraro (vedi pagina Facebook) riportiamo la dichiarazione di De Grandi all’autorità giudiziaria federale circa i suoi legami con l’ex manager della Banca Cantonale dei Grigioni Nino Giuralarocca (che ha pure lui patteggiato per concorso nella bancarotta della Parmalat).
Ecco cosa dice De Grandi: “Nel 1995 fu l’avvocato Cesare Forni a presentarmi Giuralarocca…Forni mi disse che Giuralarocca gli era stato a sua volta presentato da persone legate all’Opus Dei”. De Grandi colloca il primo incontro con Giuralarocca tra il 1995 e il 1996 e precisa che a indirizzarlo da lui fu l’avvocato Forni “su indicazione di un cardinale dell’ambiente dell’Opus Dei”. E’ una traccia su cui nessuno ha mai indagato, che collega le vicende della vecchia Parmalat ai misteri dell’Opus Dei. Una traccia che porta alla Mossack & Fonseca.