Il decreto anti-scalate del governo per impedire che Lactalis s'impadronisca di Parmalat, il ruolo assegnato alla Cassa depositi e prestiti (Cdp), che potrà  acquisire in modo diretto quote azionarie di aziende private d'interesse strategico per il paese e in prospettiva la costituzione di un fondo strategico d'investimento partecipato dalla stessa Cdp, gettano le basi di una nuova forma di intervento pubblico nell'economia.


 Il pericolo che possa risorgere un nuovo Iri e il riferimento esplicito del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, all'ex Istituto per la ricostruzione industriale hanno scatenato le polemiche sull'opportunità di questa iniziativa. Costituito per salvare banche e imprese dalla grave crisi del 1929-33, il gruppo Iri svolse bene il suo ruolo nella fase iniziale e anche dopo la guerra, investì nella siderurgia a ciclo integrale, nella cantieristica navale e in settori ad alta tecnologia come le telecomunicazioni e l'elettronica, realizzò le autostrade, dotò il paese di una compagnia aerea, di un servizio di trasporto marittimo, ma finì per diventare un elemento di distorsione nella vita economica e sociale. Fu la Dc il suo vero azionista di riferimento. I suoi maggiorenti, le sue correnti, facevano a gara per spartirsi le nomine e la torta. I progetti industriali si persero per strada. La gestione delle aziende dell'Iri finì per obbedire a interessi politici. Non si contano i miliardi buttati a migliaia nell'Alfa Sud di Pomigliano d'Arco, nella Motta-Alemagna, nel quinto centro siderugico di Gioia Tauro quando la siderurgia primaria era già in crisi da sovrapproduzione o nel tentativo di salvataggio dell'impero di Michele Sindona da parte del Banco di Roma. Erano infatti dell'Iri anche le tre banche d'interesse nazionale: la Banca Commerciale Italiana guidata da Raffaele Mattioli, il Credito Italiano e il Banco di Roma, grande feudo andreottiano. Le Bin erano a loro volta i maggori azionisti di Mediobanca, ma c'era un accordo tacito tra Dc e forze laiche (in particolare con il Partito repubblicano di Ugo La Malfa) di non ingerenza della politica negli affari di alcune grandi famiglie alleate di Mediobanca. Nell'Iri, che era pubblico, crebbero il tempio del capitalismo privato e il suo sacerdote, Enrico Cuccia, che resse Mediobanca fino agli anni '90. Non a caso il banchiere si autodefinì "un centauro, metà pubblico e metà privato". L'Iri dominava sulla grande industria pubblica; Cuccia allevava in serra il capitalismo senza capitale che privatizzava i profitti e socializzava le perdite.
Quando negli anni '90 ne fu deliberata la liquidazione, l'Istituto che era stato fondato durante il fascismo da Alberto Beneduce era un ammasso rovinoso di debiti. Con la trasformazione degli enti di Stato in società per azioni, l'Iri fu costretto ad adeguare i propri bilanci a quelli di una comune società di diritto privato e la realtà dei conti emerse in tutta la sua drammaticità.
Quando si ritorna a parlare di Iri non bisogna dimenticare la nostra storia economica. Va bene riaprire il dibattito sulla presenza dello Stato nell'economia. In questo Tremonti è coerente con le sue critiche alla sinistra "mercatista" e al tabù della moneta unica. Non bisogna però ricadere negli errori del passato. La politica non deve più entrare nella gestione delle imprese.