Solo nel nostro paese può succedere che nessuno trovi qualcosa da ridire sul fatto che l'advisor finanziario dei fondi che vogliono sostituire Enrico Bondi al vertice della Parmalat sia un banchiere che siede contemporaneamente nel consiglio d'amministrazione della Chiesi Farmaceutici, la società di famiglia della moglie di Calisto Tanzi.


Parliamo nientemeno che di Carlo Salvatori – ex direttore generale della Cariplo, ex amministratore delegato di Banca Intesa, Banca di Roma e Unipol ed ex presidente di UniCredit - approdato circa un anno fa alla presidenza della Lazard Italia. Ebbene, la nota banca d'affari di origine francese ha ottenuto qualche settimana fa un mandato di consulenza sulla Parmalat dai tre fondi esteri che vogliono cacciare Bondi: MacKenzie, Skagen e Zenit. Questi possiedono in totale il 15% del gruppo lattiero e, con un un patto di voto sottoscritto in prossimità dell'assemblea degli azionisti del 14 aprile, vorrebbero imporre  nel nuovo consiglio d'amministrazione della società di Collecchio personaggi come Rainer Masera ed Enrico Salza, esponenti di spicco dell'ex Sanpaolo-Imi.
Salvatori ha fatto di tutto perché la notizia sulla consulenza non diventasse di pubblico dominio. All'Ansa, che il 1° febbraio scorso gli chiedeva conferma dell'indiscrezione, ha risposto "è da vedere ma non è importante".  Il problema è che questo suo atteggiamento rischia di dare la stura alle ricostruzioni più fantasiose. Anche se tra la Parmalat e la Chiesi Farmaceutici non corre alcun legame azionario, un risparmitore truffato potrebbe essere portato a credere che Tanzi stia manovrando dietro le quinte per cercare di rientrare in possesso della sua ex azienda. L'ipotesi è priva di fondamento, perché parte dal presupposto, fin qui indimostrato, che l'ex cavaliere abbia un tesoro nascosto in qualche parte del mondo. Se l'avesse avuto, avrebbe potuto servirsene nel 2003 per evitare la bancarotta. Tuttavia è pericolosamente suggestiva: pochi credono che non gli sia rimasto niente dei 13,4 miliardi di euro distrutti con la bancarotta.
Comunque vada, non sembra esservi scampo stavolta per Bondi.  All'assemblea della Parmalat partecipa mediamente il 29% del capitale, quindi con il 15% si riesce a fare il bello e il cattivo tempo. Bondi sconta da una parte un eccesso di prudenza nella gestione aziendale, che ha nuociuto alle quotazini di Borsa del titolo, dall'altra l'inimicizia delle più grandi banche nazionali e internazionali. L'amministratore delegato è stato restio sia a investire in acquisizioni sia a distribuire agli azionisti gli 1,4 miliardi incassati dalle cause per danni e ora subisce l'ostracismo degli istituti di credito che ha citato in giudizio. Nessuno di questi muoverà un dito per difenderlo, c'è da starne certi.