L’euro forte ci ha reso più poveri: è costato ai paesi membri dell’Unione europea parecchi milioni di disoccupati in più, un aggravamento dei deficit pubblici e maggiore debito pubblico.L’economista Mario Baldassarri, nel suo recente studio “Le radici ‘europee’ della crisi ‘europea’”, stima che l’apprezzamento dell’euro sul dollaro avvenuto  a partire dal 2003 (“in conseguenza delle decisioni prese dalla Banca centrale europea di Jean-Claude Trichet, sospinto dai falchi della Bundesbank”)  abbia causato in media alla zona euro, fino al 2014, una perdita dell’11% del Pil. E che a rimetterci siano stati anzitutto Germania e Italia – le due principali economie manifatturiere della Ue, orientate all’esportazione – con una perdita stimata di Pil rispettivamente del 13 e del 14 per cento. Scrive Baldassari, ex senatore di Alleanza nazionale e viceministro dell’Economia del secondo governo Berlusconi, ma con una notevole carriera accademica (studi al Mit di Boston con Franco Modigliani e Robert Solow): “In termini di occupazione totale, la zona euro ha perso oltre 17 milioni di posti di lavoro regalando al resto del mondo, soprattutto Stati Uniti e Cina, maggiore occupazione”.

L’Eurozona ha in sostanza contribuito a creare “17 milioni di posti di lavoro al di fuori dell’Europa a causa di un tasso di cambio dell’euro fortemente sopravvaluto. Al suo interno, la Germania ha perso 3,3 milioni, la Francia un po’ meno 1,7, mentre l’Italia quasi 2 milioni, la Spagna 1,5 milioni. La Grecia ha perso 350mila posti di lavoro, meno in termini assoluti, ma enormemente importanti in termini relativi. Il tasso di disoccupazione nella zona euro, alla fine del 2014, è stato di circa 11,6%”.

L’occupazione in Europa avrebbe subito un calo minore con una politica monetaria indirizzata alla parità tra l’euro e il dollaro: “Con la parità si sarebbe invece determinato un tasso [di disoccupazione] del 5,8%, che è più o meno quello registrato negli Stati Uniti alla fine del 2014. Anche la Germania, che ha perso il 6,7% di tasso di occupazione alla fine del 2014, sarebbe potuta scendere al 3,6 per cento…L’Italia avrebbe avuto l’8,8% e non il 13% sperimentato a fine 2014. Spagna e Grecia, ovviamente, sarebbero ancora a tassi di disoccupazione elevati, ma la prima è al 24% e sarebbe stata al 16% e la seconda è al 26,7% ed avrebbe fatto registrare una disoccupazione al 19%”.

L’effetto della parità tra euro e dollaro sarebbe stato positivo anche per le finanze pubbliche. Scrive ancora Baldassarri, che presiede il centro di ricerche Economia reale: “Alla fine del 2014, l’area euro presenta un consistente deficit pubblico di -269 miliardi di euro che, invece, sarebbe stato addirittura un surplus di +165 miliardi: la differenza risulta pari a 435 miliardi…Sul fronte del debito pubblico, per l’area dell’euro, avremmo 3mila miliardi di euro di debito in meno, distribuiti in tutti i paesi: 938 miliardi in meno in Germania, poco più di 400 in Francia e in Italia, un po’ meno di 150 in Spagna, un po’ meno di 100 per la Grecia. Tutto ciò significa semplicemente che, in caso di parità euro/dollaro, non avremmo avuto alcuna crisi europea da debito sovrano, Grecia compresa…Il tasso di inflazione sarebbe rimasto al di sotto dell’obiettivo del 2% originariamente assegnato alla Bce, e soprattutto si sarebbe evitato qualsiasi rischio di deflazione”.

Certo, quella di Baldassari è un’analisi a bocce ferme. E’ infatti ipotizzabile che, a una politica del cambio orientata alla parità con il dollaro, gli Usa avrebbero finito per reagire. Sono tuttavia dati su cui è bene riflettere mentre è in corso il dibattito per un riadeguamento dei parametri di Maastricht. L’idea che la moneta unica potesse appianare le divergenze economiche e finanziarie tra i diversi paesi dell’Unione si è rivelata illusoria. Le divergenze si sono al contrario allargate, e l’euro che circola in Germania è già nei fatti un’altra moneta rispetto allo stesso euro scambiato in Italia o in Spagna. Per non parlare della “bomba” immigrati e dei suoi effetti sul trattato per la libera circolazione delle persone. O si prende atto della necessità di una modifica dei parametri europei e di un’integrazione anche politica (non solo monetaria) dell’Unione, oppure il rischio di una disintegrazione dell’Europa diverrà sempre più concreto.