Gli amministratori delegati delle più potenti multinazionali dovrebbero essere eletti a suffragio universale. L’ultima provocazione di Giorgio Galli nel suo libro uscito poco prima della sua scomparsa.
Il pericolo nel mondo globalizzato è che un numero ristretto di grandi imprese multinazionali accumuli un potere così grande da riuscire a sottrarsi a qualsiasi controllo, privato e pubblico. Questa è una delle caratteristiche di fondo del XXI secolo, avverte Giorgio Galli nel suo ultimo saggio, L’anticapitalismo imperfetto (Kaos edizioni), che ha fatto appena in tempo a vedere stampato prima di morire.
Secondo il politologo e storico – che con la sua opera di studioso ed il suo impegno di intellettuale è stato un riferimento della vita culturale e politica nazionale – circa 500 aziende transnazionali si contendono oggi masse di liquidità enormi e canali privilegiati di accesso al credito. E all’interno di questo ristretto numero di imprese esiste un nucleo ancora più piccolo di aziende, dalla cui operatività dipende il destino di centinaia di migliaia di società fornitrici e di decine di milioni di consumatori. Il caso più noto è quello delle cinque “sorelle” mondiali del Big tech – Amazon, Apple, Google, Facebook e Microsoft – tutte aziende con capitalizzazioni di Borsa da vertigine, il cui potere di condizionamento su scala planetaria sta soppiantando quello delle major petrolifere.
Questa forte concentrazione di ricchezza e di potere, che amplia a dismisura le disuguaglianze, crea l’illusione di una libertà di iniziativa economica in decine di milioni di persone che invece “non sono che rotelle dell’ingranaggio del capitalismo diffuso delle 500 grandi multinazionali egemoni”. E’ la stessa illusione di centinaia di milioni di consumatori – aggiunge Galli – che “ritengono di poter scegliere liberamente il proprio stile di vita individuale, mentre sono condizionati da stili di vita e da costumi imposti, più o meno sottilmente, dai grandi media, dalla pubblicità e dalla distribuzione, tutti sotto il controllo delle maggiori multinazionali”.
Il tema politico che Galli sottopone alla nostra attenzione è in che modo e in che misura gli Stati potrebbero regolamentare chi detiene strutture tecnologiche così potenti e invasive della sfera privata.
Secondo Galli, finché non si riuscirà a porre un freno alla superclass dei top manager a capo delle grandi multinazionali, qualsiasi anticapitalismo, di sinistra o di destra, è destinato al fallimento. Il vero potere decisionale sta infatti migrando – secondo Galli – dalla classe politica e di governo agli amministratori delegati dei grandi gruppi mondiali dell’industria, dei servizi e della finanza.
Come sta il capitalismo?
Per Galli, l’anticapitalismo di sinistra non è “riuscito a costruire un’alternativa al modello del profitto come valore supremo”, pur in presenza di un crescente e diffuso disagio sociale su scala planetaria. Ma “se l’anticapitalismo è imperfetto – osserva –, il capitalismo globalizzato delle multinazionali non gode di buona salute”.
La sua supremazia culturale non gli è bastata né a prevedere né a contrastare efficacemente la pandemia di Covid-19, “nonostante la sua pretesa di onnisciente e onnipotente scientificità”. Questo capitalismo – annota Galli – ha aggravato il divario sociale su scala planetaria. E non è stato capace di affrontare e di risolvere i problemi dello sviluppo economico. Persino il sogno americano è sfociato nell’impoverimento dei lavoratori e della classe media e nei tumulti dei neri e dei poveri. La forza del capitalismo sta – secondo Galli – nell’avere istituzioni e regole che ne garantiscano il funzionamento, non nell’ultraliberismo che accresce la distanza tra ricchi e poveri e distrugge il ceto medio. Il capitalismo delle multinazionali, invece, non tollera regole: gli basta la legge del più forte, che vale tra le stesse multinazionali. Chi è alla guida di queste imprese punta fondamentalmente al profitto senza preoccuparsi delle sue conseguenze sociali, che considera un sottoprodotto. “La superclass delle multinazionali può fronteggiare con successo questa eventuale miscela, ma deve tener conto del fatto che materiale esplosivo si accumula anche in Europa”, come ha dimostrato il movimento dei gilet jaune in Francia.
Anche nelle drammatiche circostanze della pandemia, i colossi multinazionali hanno confermato la loro natura prevalentemente “predatoria”. Galli enumera una molteplicità di casi: da quello del gigante petrolifero saudita che ha destabilizzato con i suoi ribassi il prezzo del greggio per poi rilevare titoli di società del settore a valori scontati, al caso di René Pich, il fondatore della multinazionale francese leader mondiale del trattamento chimico delle acque, che ha proposto contro il virus l’uso della clorochina “da lui comprata in India illegalmente su Internet, per cui viene indagato per esercizio abusivo della medicina”, al caso di Donald Trump, che ha suggerito un farmaco per la cura del corona virus (il Plaquenil) prodotto da Sanofi, in cui i trust dell’ex presidente americano hanno investito attraverso un fondo.
Le radici della teoria del complotto
Un aspetto interessante, che rappresenta uno dei fili conduttori di questo saggio, è che le fonti utilizzate da Galli sono alla portata di un attento lettore di quotidiani e che la massa di informazioni oggi a disposizione del pubblico “limita le possibilità del ‘pensiero unico’ tanto temuto dagli anticapitalisti di sinistra e di destra”. La teoria del complotto mondialista che appassiona il popolo della Rete è frutto del senso di minaccia e di insicurezza che il capitalismo delle multinazionali infonde nella pubblica opinione. E, per quanto sia giusto confutarla, scaturisce dal diffuso atteggiamento di sospetto che accomuna ormai cittadini di sinistra e di destra. E’ una forma di diffidenza collettiva verso ogni potere ritenuto incontrollabile.
Prosegue Galli: “Nel pensiero dell’anticapitalismo di destra è presente una tendenza a considerare gli amministratori delegati delle grandi multinazionali come una sorta di coeso governo mondiale. Non è così: le multinazionali, come gli Stati,… talvolta si alleano, ma in genere sono in competizione tra loro; e i loro vertici, lungi dall’essere un governo mondiale, talvolta si combattono, fino a distruggere le stesse multinazionali”. Vedi il caso di Lehman Brothers, la banca d’affari Usa, il cui dissesto ha innescato la crisi finanziaria internazionale del 2008.
La teoria del capitalocene
Sono in forte competizione tra loro anche le cinque “sorelle” dell’informatica. Queste aziende guardano già oltre la pandemia per contendersi il mercato dell’intrattenimento post coronavirus. Galli sembra condividere con Jason Moore (lo storico americano dell’ambiente autore del celebre Antropocene o capitalocene) l’idea che il mondo sia ormai arrivato a un’epoca dominata dal capitale, non più dall’uomo, e che si stiano creando le premesse per l’estinzione dell’uomo. Nell’euforia del capitalismo queste previsioni appaiono catastrofiste e infondate. Eppure qualche anno fa questa stessa tesi è stata proposta da Nature e da Science. Le due più prestigiose riviste scientifiche internazionali hanno dimostrato come dal Cinquecento ad oggi si siano estinte oltre 350 specie di vertebrati. Una teoria che dà forza a quella espressa nel 1995 dal paleontologo Richard Leakey, che ha previsto, in un libro scritto a quattro mani con il giornalista Roger Lewin, l’estinzione della specie umana come conseguenza dell’impressionante ritmo di distruzione degli ecosistemi. Sono i grandi problemi scatenati da uno sviluppo incontrollato, di cui il cambiamento climatico rappresenta oggi la conseguenza potenzialmente più distruttiva.
Democrazia o oligarchia
La priorità del XXI secolo – per Galli – consiste nel ridurre il divario che oggi separa l’elettorato attivo dalla élite formata dai vertici delle grandi multinazionali. Questo è il messaggio che ci lascia lo studioso: la speranza che la democrazia rappresentativa come l’abbiamo conosciuta fino a ieri possa evolvere in direzione di un maggior controllo da parte dei cittadini. Altrimenti potrebbe regredire e farsi oligarchia: ciò che il politologo americano Robert Dahl, spesso citato da Galli, ha definito “governo dei custodi”. Il
cittadino deve poter scegliere chi comanda per davvero. Chi ha un potere così grande come il capo di una grande multinazionale non può essere scelto per cooptazione, deve essere eletto dal cittadino per suffragio universale. Solo “così l’anticapitalismo potrà essere meno imperfetto”. E’ una proposta che ha una sua indubbia carica utopica, e le utopie spesso hanno anticipato le svolte epocali della storia. Una riforma così radicale richiederebbe tuttavia una nuova giurisprudenza sulle società per azioni e sui diritti degli azionisti condivisa a livello internazionale: problema di difficile soluzione.
Alcuni interrogativi in sospeso
Intanto bisogna costruire lo schieramento politico capace di portare avanti un progetto del genere. E qui Galli lascia in sospeso i suoi interrogativi. E’ ipotizzabile una convergenza con l’anticapitalismo di destra che rafforzi lo schieramento per il cambiamento e riesca a fronteggiare le multinazionali che vi si oppongono? E’ ipotizzabile coinvolgere i populisti in questa battaglia, valorizzandone la componente critica del capitalismo, anche attraverso l’alleanza con il Pd? Galli intravede delle similitudini tra la battaglia anticapitalistica contro i Benetton condotta dai due governi Conte a seguito del crollo del ponte “Morandi” a Genova e quella dei socialisti del primo centrosinistra attuata sessant’anni fa per la nazionalizzazione dell’Enel. Adesso però con Mario Draghi presidente del Consiglio gli eventi potrebbero prendere altre direzioni. Ai posteri l’ardua sentenza