I giornali trasudano ottimismo sui possibili benefici della svalutazione dell’euro e della politica di alleggerimento monetario della Bce. Non perdono occasione per ricordarci che la ripresa bussa alle porte, che il clima di fiducia dei consumatori è cambiato, che il 2015 sarà l’anno della svolta.
Ma in che misura un cambio più favorevole può contribuire al risveglio dell’economia? Non dimentichiamo che le imprese italiane che vivono di esportazioni sono per la maggior parte concentrate nel settore manifatturiero, rappresentano, con l’indotto diretto e indiretto, non più di un terzo del Pil, e che l’euro si è deprezzato sul dollaro e sul franco svizzero, ma non sulle altre monete. Le esportazioni dirette nell’area dell’euro, che non hanno beneficiato dell’effetto cambio, assorbono circa il 45% della nostra domanda estera. La svalutazione interessa pertanto non più della metà delle nostre esportazioni.
In Italia, la domanda di beni e servizi è sostenuta per due terzi dal mercato interno e solo per un terzo dall’export, e a penalizzare la domanda interna non è il cambio, ma l’eccessivo rigore fiscale.
Il problema risale ai primi anni ’90, quando, per risanare la finanza pubblica e ridare fiato all’economia, i governi scelsero di puntare sulla crescita delle esportazioni, rendendole competitive attraverso continue svalutazioni della lira.  L’ingresso nell’euro segnò da un lato la fine delle svalutazioni competitive  (l’Italia non controllava più, infatti, la leva del cambio) e dall’altro un costante inasprimento delle politiche fiscali che ha compresso i redditi e schiacciato la domanda interna.
L’impennata delle aliquote fiscali è avvenuta con la manovra da 100mila miliardi di lire del governo Amato (1992), è proseguita con il primo governo Prodi (1996-98), e un ulteriore giro di vite sulle aliquote delle fasce medie e medio-basse (per i redditi compresi tra i 30mila e i 100mila euro) lo ha dato il secondo governo Prodi con la finanziaria del 2007. Con 80mila euro lordi annui di reddito da lavoro dipendente, in Italia l’aliquota media si avvicina al 40%, mentre in Svizzera è del 20%, in Gran Bretagna del 25% e in Francia e Germania di circa il 30 per cento.
Alla perdita del potere d’acquisto delle famiglie si sono aggiunti, poi, gli effetti della recessione. Dal 2008 l’economia nazionale è precipitata: il Pil ha registrato una caduta di quasi il 10%, la produzione industriale del 25%, i consumi all’incirca del 10%, gli investimenti del 30 per cento. Un bollettino di guerra. Rispetto al 2007, ultimo anno di crescita dell’Italia, il Pil risulta oggi in calo del 9%, ma solo grazie alla ripresa delle esportazioni. Senza la tenuta della domanda estera, che ha recuperato il livello del 2007 anche se in modo differenziato per settore industriale e area geografica, l’Italia oggi sarebbe nelle stesse condizioni della Grecia; la quale, non avendo un’industria esportarice, ha perso in questi sei anni e mezzo all’incirca il 25% del Pil.
Ma le esportazioni da sole non bastano a risollevare l’economia e a creare una ripresa, anche perché l’azienda che realizza all’estero quote crescenti di fatturato ha convenienza, oltre una certa soglia di ricavi, a produrre direttamente nei paesi in cui vende. E se un imprenditore delocalizza in Polonia, in Cina, in India o in altre parti del mondo contribuisce al Pil di questi paesi, non al Pil italiano.
Insomma, la svalutazione da sola non compie miracoli; le misure anti-deflazionistiche della Bce possono arrecare sollievo all’economia, ma non sono la terapia.
C’è poi la questione del divario Nord-Sud, di cui nessuno oggi parla più. L’economia delle regioni meridionali dipende poco e niente dalle esportazioni. Il Mezzogiorno si è avvitato su se stesso: laddove al Nord le imprese esportatrici hanno contribuito alla tenuta del quadro economico e sociale, al Sud, in assenza di esportazioni, la domanda è crollata, provocando l’aumento della disoccupazione e dell’emigrazione. Se la disoccupazione in Italia è in media del 13%, nel Sud raggiunge, anche a causa della crisi del settore pubblico, livelli simili alla Grecia, intorno al 25%, il doppio della media nazionale. In Italia, accanto a 22 milioni di occupati, i disoccupati ufficiali sono stimati tra i 3 e i 3,5 milioni (con una previsione di peggioramento nei prossimi due anni), oltre la metà dei quali residenti nel Sud dove il lavoro sommerso, che consente all’economia di galleggiare in uno stato di illegalità diffusa, è la regola.
L’altra questione è il paramentro europeo del 3% nel rapporto tra defici e Pil. Per rispettare il limite del 3%, i governi sono costretti a torchiare i contribuenti, finendo per deprimere l’economia. Bisogna trovare il modo di uscire da questo circolo vizioso. Le aliquote che ci ritroviamo – insieme alle lungaggini burocratico-amministrative, ai disservizi, ai tempi lunghi della giustizia, all’economia criminale e via elencando – sono un forte disincentivo a intraprendere. Il tasso di evasione è correlato non solo al livello di civiltà di un paese, ma anche alle distorsioni del suo sistema fiscale, che in Italia hanno superato ogni limite. Il capo del governo, Matteo Renzi, ha canalizzato molte delle sue energie nella riforma del lavoro, ma senza una riforma fiscale che contrapponga all’ideologia del rigore un’idea di crescita, qualsiasi ripresa rischia di essere fragile.  SECONDA ED ULTIMA PUNTATA