La rete di telecomunicazione nazionale è sovraccarica e potrebbe andare in tilt, dice l’amministratore delegato di Telecom Italia, Franco Bernabè, nell’intervista di oggi a "Repubblica" raccolta da Giovanni Pons. La caduta dei prezzi, spiega Bernabè, ha provocato "…un peggioramento della qualità del servizio dovuto al forte aumento degli interventi di trasformazione e ad un più intenso uso della rete di accesso. Se non interrompiamo questa spirale al ribasso assisteremo ad inevitabili ricadute sui servizi alla clientela e sul funzionamento della rete".
Precisa il top manager di Telecom: "…il traffico dati sta letteralmente esplodendo, c’è una crescita a tre cifre che in breve tempo metterà in crisi la tenuta dell’attuale infrastruttura".

Ma non era stata Morgan Stanley a sostenere, durante la stagione di Marco Tronchetti Provera, che la rete italiana era la più avanzata d’Europa? Come si concilia un’affermazione così trionfalistica con il giudizio di Bernabè sulla qualità del servizio? Finalmente una parola chiara e autorevole sullo stato dell’arte dell’infrastruttura: se l’Italia non realizza una rete di prossima generazione, quella che abbiamo finirà ingorgata dall’esplosione della domanda, e presto avremo un servizio scadente.

Del resto, lo vediamo già oggi: l’accesso a Internet da casa è lento, anche per gli abbonati al wi-fi, e in certe zone del Paese collegarsi alla Rete in determinate ore della giornata è un’impresa. Per scaricare un film, se non si dispone di un collegamento in fibra ottica fino a casa, ci vogliono ore, e la qualità delle immagini è deludente. In queste condizioni, senza una grande rete nazionale a banda larga le potenzialità di Internet non potranno mai esprimersi in modo compiuto.

La tanto vituperata Sip, controllata dallo Stato, riuscì a garantire un volume di investimenti che ha consentito alla rete italiana nel corso degli anni ’90 di compiere il salto nella tecnologia digitale. La Telecom privata, invece, arranca dietro a un indebitamento che "non ci permette grandi margini di manovra" (sono ancora parole di Bernabè). E parliamo di un’azienda nel cui azionariato – accanto a una primario operatore come Telefonica e a un primario gruppo industriale come Benetton – figura quello che dovrebbe essere il fior fiore della finanza italiana: Mediobanca, Intesa San Paolo, Generali. E’ possibile che azionisti privati di questo calibro non riescano ad assicurare un futuro alla Telecom? Ma non si doveva preservare la nazionalità dell’impresa per impedire che cadesse sotto il controllo di una società straniera? Come mai questi azionisti non vogliono cacciare un soldo per ricapitalizzare in Borsa la società?

Il problema, dice Bernabè, ampliando un concetto già espresso in una recente intervista al "Sole-24 Ore", è che per finanziare la rete di nuova generazione, per portare la banda larga in ogni provincia italiana, la Telecom deve aumentare il suo cash flow. In che modo? Con uno sfrozo comune tra la società, l’autorità di settore, il Governo e gli operatori terzi, "per dotare il Paese di questo fondamentale asset". Bisogna in altre parole agire come gli Stati Uniti; i quali "hanno scelto – dice ancora Bernabè – la via della sospensione della regolazione proconcorrenziale".

In un sistema di libero mercato mancano in sostanza le condizioni economico-finanziarie e tariffarie che giustifichino un investimento oneroso come quello per la rete di nuova generazione. Per realizzare la nuova infrastruttura bisogna dunque superare l’attuale regime di concorrenza – è la conclusione di Bernabè – attraverso un "patto di sistema" tra il regolatore e tutti gli operatori che assicuri un adeguato ritorno sugli investimenti.
Tutto bene; purché questo patto non sia un modo per scaricare i costi della nuova rete sulla gobba della clientela.

Si dica, cifre alla mano, quali vantaggi concreti ne avranno gli utilizzatori, grandi e piccoli. I benefici dovranno essere ugualmente ripartiti tra utenti e Telecom. Altrimenti bisognerà riconsiderare seriamente l’ipotesi di una ripubblicizzazione della rete.