La Sanità pubblica lombarda, pur con le sue indubbie eccellenze e con un livello medio di efficienza organizzativa più elevato di tutte le altre Regioni, sta mostrando nel corso della drammatica pandemia da Covid-19 le sue falle.

Il sistema sanitario lombardo appare sbilanciato. Quando ero ancora un inviato de “Il Sole 24 Ore” lavorai nel 2011-2012 a una grande inchiesta sui conti delle Regioni italiane che mi costrinse ad approfondire il tema della Sanità, che rappresenta tutt’oggi la principale voce di spesa degli enti territoriali. Con Mariano Maugeri firmammo il primo di una serie di articoli in cui intervistammo tra gli altri l’ex assessore regionale alla Sanità Alessandro Cè. Nel 2007 Cè s’era dimesso da assessore e aveva contemporaneamente lasciato la Lega di Bossi (nelle cui liste era stato eletto deputato) dopo essersi scontrato con l’allora presidente del “Pirellone” Roberto Formigoni e con i suoi metodi di gestione della cosa pubblica che gli sono poi costati una condanna per corruzione a cinque anni e dieci mesi di reclusione. Sono andato a ripescare le dichiarazioni di Cè: “Vi siete mai chiesti – ci disse – perché in Lombardia ci sono più centri di cardiochirurgia che in Francia, molti dei quali privati? Perché la cardiochirurgia, così come altre specialità, è estremamente remunerativa. Sul pubblico, invece, si scaricano le prestazioni meno profittevoli. Succede così che un imprenditore come Giuseppe Rotelli, titolare del gruppo ospedaliero San Donato, diventi il secondo azionista di Rcs con gli utili della sanità privata convenzionata”. L’eccesso di offerta in cardiochirurgia, soprattutto negli ospedali privati, attirava e attira pazienti da tutta Italia generando un alto volume di profitti, ma lasciando sguarniti i settori più “poveri”, di cui debbono farsi carico le aziende ospedaliere pubbliche. E non è che un esempio.

Nell’inchiesta scrivevamo anche, citando uno studio del Centro ricerche sull’assistenza sanitaria dell’università Bocconi, che i cittadini lombardi sborsavano di tasca propria 6 miliardi per pagarsi le prestazioni che il settore pubblico, sovraccaricato e impoverito, non riusciva a erogare entro tempi ragionevoli: un dato che dimostrava l’esistenza di forti disparità, disuguaglianze e squilibri, anche in Lombardia, tra Sanità pubblica e Sanità privata. Penso che oggi la situazione possa essere solo peggiorata. E’ la netta sensazione che si ricava prenotando una visita specialistica con il sistema sanitario nazionale. Per bene che vada, i tempi di attesa anche in Lombardia non sono inferiori ai 4-6 mesi. Ne sanno qualcosa gli anziani. Provare per credere. Chiamate il centro unico di prenotazione della Regione per un test sotto sforzo per il cuore, per una Tac o per un intervento chirurgico? Campa cavallo.

Probabilmente un sistema sanitario regionale troppo proteso verso le specialità più redditizie e sguarnito in quelle meno redditizie o in perdita presta maggiormente il fianco a un evento eccezionale come una pandemia. Ciò nulla toglie ai meriti della Sanità lombarda nel suo insieme, che non sono pochi se pensiamo alla situazione in cui versano gli ospedali di molte città italiane, soprattutto del Sud. E qui vorrei spezzare una lancia anche a favore del privato convenzionato, cui sarò sempre riconoscente per avere guarito mia moglie con un’operazione peraltro interamente a carico del sistema pubblico. Mi riferisco in particolare ad un centro di eccellenza di livello europeo come l’unità di neuroradiologia interventistica endovascolare del San Raffaele di Milano, diretta dal professor Andrea Falini, e a medici di grande valore e sensibilità come la dottoressa Caterina Michelozzi e il dottor Francesco Scomazzoni. Al di là delle critiche mosse ai “padroni” della Sanità privata e della necessità di ritornare a investire nella Sanità pubblica, che resta il pilastro portante del sistema, non si possono trascurare né ignorare le alte competenze maturate in questi anni nei grandi ospedali privati lombardi, che vanno salvaguardate come patrimonio della collettività.

Anche il sistema pubblico ha peraltro le sue distorsioni. Pensiamo alla libera professione intramoenia effettuata dai medici ospedalieri al di fuori dell’orario di lavoro, con cui è possibile ottenere a pagamento nell’arco di pochi giorni, nelle strutture ambulatoriali dell’ospedale, una prestazione che con il sistema sanitario nazionale richiederebbe mesi e mesi di attesa.

Il problema è che la Sanità pubblica lombarda nel corso degli anni  ha perso il rapporto con il territorio, qualsiasi capacità di intervento, e che in questa emergenza – come ha criticato il professor Andrea Crisanti, che dirige il laboratorio di microbiologia e virologia dell’azienda ospedaliera dell’università di Padova – si è dimostrata incapace di fornire un supporto al territorio. A questo proposito posso citare la mia esperienza personale. Qualche giorno fa ho saputo che il mio medico di base, che avevo incontrato circa 14 giorni prima, era stato ricoverato una settimana prima al Policlinico di Milano perché positivo al Covid-19. Ovviamente mi sono messo in allarme, pur essendo già trascorsi i fatidici 14 giorni di incubazione della malattia e pur non avendo mai accusato alcun sintomo né io né i miei familiari. Ho chiamato il numero verde unico regionale per sapere come avrei dovuto comportarmi e mi ha risposto una voce registrata che mi diceva che in questi casi bisogna mettersi in isolamento per almeno quattordici giorni senza entrare in contatto con nessuno. Fine della trasmissione. Non un operatore che prendesse nota del mio nome, cognome e indirizzo e dei nomi di coloro che avevo visto negli ultimi quattordici giorni. Una Sanità, appunto, che ha perso di vista il rapporto diretto con il cittadino, incapace di censire persino coloro che telefonano per autodenunciarsi di avere avuto contatti con persone infette e che manca degli strumenti per una compiuta indagine epidemiologica.