Il pubblico ministero Lucia Russo, nel corso della sua requisitoria, compie un lungo excursus giurisprudenziale per dimostrare la responsabilità penale dei consiglieri d'amministrazione senza delega, tema centrale del processo Parmalat.


Secondo le indicazioni del codice civile (articoli 2.392, 2.394 e 2.740), gli amministratori di una società hanno il dovere di attuare ogni possibile condotta che eviti eventi dannosi e l'obbligo di attivarsi per la conservazione del patrimonio a tutela dei creditori. La Cassazione aggiunge, con un'apposita sentenza, che gli amministratori "hanno precisi poteri e doveri di vigilanza sulle attività poste in essere da tutti coloro che in via di diritto e di fatto agiscono per conto della società e di controllo sull'operato di chiunque operi all'interno dell'azienda. Essi devono dimostrare di aver fatto tutto ciò che era nelle loro possibilità per attuare un'efficace vigilanza e un rigoroso controllo". E continua: "Chi consapevolmente si sia sottratto nell'esercitare i poteri e doveri di controllo….può rispondere di essi". Le difese argomentano che gli imputati disponevano  delle scarne notizie che emergevano  dalle riunioni del consiglio, e che su tutto il resto erano tenuti all'oscuro. Ma la Cassazione ribadisce, nella sentenza medesima, che per provare la responsabilità dell'amministratore non è necessario stabilire né che abbia una completa conoscenza degli eventi pregiudizievoli né che questi gli siano pervenuti dal consiglio o da altro canale ufficiale dell'azienda. Per la Corte Suprema, "la penale responsabilità  prescinde dalle modalità e tipologie del canale conoscitivo…: non può ragionevolmente assumersi che l'unico canale di conoscenza dell'amministratore….si riduca all'informazione resa in seno al consiglio d'amministrazione o al solo ambito societario". 

Insomma, l'amministratore deve essere vigile, raccogliere ogni segnale d'allarme, interno ed esterno all'azienda, e assumere "una condotta di ostacolo verso il probabile pregiudizio del patrimonio sociale". L'amministratore non può starsene zitto e inerte di fronte a eventi dolosi di cui abbia sentore. 

I segnali d'allarme non erano mancati, le prove al riguardo erano molteplici, ma il consiglio finse di non accorgersene. La prima vistosa anomalia era proprio la presenza in bilancio di un ammontare abnorme di liquidità. Dal 2002 in poi se ne era accorta la stampa, se ne erano accorti gli analisti, i gestori, diverse banche.  Puzzava che Parmalat seguitasse a emettere bond e a pagare interessi salati pur avendo in pancia 4 miliardi di disponibilità. Gli unici a non porsi il problema erano stati gli amministratori. Tra la metà degli anni '90 e il 2000 Tanzi aveva avviato un'aggressiva campagna acquisti, ma piuttosto che privarsi dell'apparente liquidità aveva preferito emettere nuovi prestiti obbligazionari. Più la società si indebitava e più la liquidità cresceva. Nel 1996 era aumentata dell'88%, nel 1997 del 105% e così via. Il fatturato era prossimo ai valori della liquidità e del debito. Fatti del genere non si riscontravano in nessun'altra azienda internazionale. E dov'era  investita questa montagna di soldi? La questione veniva liquidata in appena tre righe del bilancio, dove si affermava che le disponibilità erano finite  in titoli a basso rischio. Ma quando mai titoli a basso rischio rendono il 28%, come ha stabilito uno dei consulenti della Procura? Gli amministratori nemmeno si curavano della domanda . E quando a Maria Martinelli, sindaco di Parmalat, è chiesto di conoscere come viene impiegata la liquidità, il resto del consiglio la tratta con freddezza.
C'è poi la storia della copertina di "Milano Finanza" del 7 dicembre 2002: un'intervista di Fabio Tamburini a Calisto Tanzi e Fausto Tonna dal titolo "Mister Bond". Ma di questo parleremo nel prossimo post.
3. CONTINUA