Un banchiere italiano che sedeva nel consiglio d'amministrazione europeo di una delle maggiori banche del mondo mi raccontò in modo riservato, tra il 2004 e il 2005, i metodi che erano in voga nelle grandi banche d'investimento. Questo signore, che vive ancora oggi tra Londra e Milano, mi spiegò, in modo sintetico ma molto efficace, come l'organizzazione delle banche d'affari finisse per stimolare l'avidità e l'ingordigia di coloro che vi lavorano. Ampi stralci di quell'intervista li riversai ne "L'Intrigo". Ecco cosa mi disse: “Quando si lavora a un private placement, un collocamento privato di azioni o obbligazioni riservato a investitori professionali, le commissioni sono abnormi, possono oscillare tra il 2-3-5 per cento: 2-5 milioni di dollari su un’emissione da 100 milioni, cui vanno sommati di solito altri 5 milioni di dollari di commissioni per la contestuale copertura con derivati. Su un affare del genere, il team di lavoro può ottenere retrocessioni del 20 per cento: 20 milioni su un’operazione da 100”.

La fonte precisò che questo era ciò che accadeva in realtà internazionali come JP Morgan Chase, Crédit Suisse First Boston, Deutsche Bank, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Royal Bank of Scotland, Ubs. E aggiunse: “Oggi, un  giovane d’esperienza di 30-32 anni che operi nel settore dei crediti e dei derivati strutturati di una grande banca internazionale costa in media 1,5 milioni di euro, ai quali bisogna aggiungere i bonus. Se la persona mi costa un milione e mezzo di euro, mi aspetto che mi procuri da 10 a 15 milioni l’anno di commissioni, su cui poi la medesima persona percepisce dei bonus. Questo spiega la corsa a collocare bond anche per conto di emittenti falliti, come la Parmalat. E’ l’organizzazione delle grandi banche d’investimento che porta alla ricerca di qualsiasi tipo di affare, purché lucroso. E’ un sistema che genera ingordigia negli individui e fa sì che un operatore si turi il naso e faccia finta di non vedere, perché ha forti interessi personali a concludere l’affare. Questo modo di lavorare determina meccanismi di connivenza tra banchieri d’affari e aziende in difficoltà: l’uno sa ma fa finta di non sapere, perché l’altro rappresenta una fonte di profitti”.
Questa rappresentazione del sistema dall'interno, che – ripeto – avveniva 3-4 anni fa, ci fa capire diverse cose. Primo: chi sedeva al vertice ha esposto le banche in modo consapevole a rischi molto elevati, traendone non solo più potere per sé, ma anche, probabilmente, un illecito profitto. Chi ci dice che le retrocessioni, ovvero le "stecche" che venivano trattenute dai team di lavoro, non siano salite fino ai piani alti? Secondo: i banchieri che hanno portato le banche a questo stato di dissesto finanziario e di degrado morale non possono essere gli artefici di una riforma del sistema. La loro credibilità è infatti pari a zero. Terzo: le autorità di vigilanza hanno responsabilità anche maggiori dei banchieri, perché hanno lasciato che il sistema andasse alla deriva. Quarto: è difficile credere che tutti questi virus non abbiano contagiato le banche italiane. Le fallite scalate del 2005 non sono avvenute per un caso. Forse il sistema bancario italiano è tra i più solidi a livello europeo (anche se questo è tutto da dimostrare). Forse è stato solo sfiorato dalla crisi finanziaria internazionale. Forse. E' però certamente ai primi posti quanto a capacità di spremere la clientela e cavarne profitti per i propri azionisti.