Vediamo molta polvere sollevarsi all’orizzonte. Da qualche mese il biometano di derivazione agricola e zootecnica sembra divenuta la nuova frontiera energetica dell’Italia (scritto il 9 aprile 2019). Soprattutto dopo che Eni e Cib (Consorzio italiano biogas) hanno sottoscritto un accordo quadro che impegna sulla carta il gruppo petrolifero di Stato ad avviare collaborazioni commerciali e industriali con gli iscritti al Consorzio per rifornire di biometano per autotrazione le sue stazioni di servizio. Eni e Cib hanno istituito “un tavolo di lavoro e di studio che si riunirà periodicamente per valutare e definire le modalità di interazione più efficienti e convenienti per le parti”. Per fare cosa? Per “approfondire con gli associati iniziative commerciali e industriali” volte a trasformare il biogas, che le aziende agricole e zootecniche già utilizzano per produrre energia elettrica e termica, in biometano compresso o in Biognl per auto e mezzi pesanti. L’Eni si impegna solennemente a ritirare circa 200 milioni di metri cubi di biometano producibile dalle aziende del Cib.
Su questo accordo di massima abbiamo assistito a uno strombazzamento mediatico fuori dell’ordinario che ha visto in prima linea il presidente del Cib, Piero Gattoni, il capo della raffinazione di Eni, Giuseppe Ricci, e il ministro leghista delle Politiche agricole, Gian Marco Centinaio.
Centinaio e Gattoni considerano il biogas e il biometano un supporto fondamentale per l’agricoltura italiana, non solo per gli agricoltori ma anche per gli allevatori, i quali – ammette Gattoni – “faticano sempre più a rimanere sul mercato nonostante le loro produzioni di qualità eccezionale. Gli agricoltori del biogas sono riusciti negli ultimi anni a mitigare gli effetti della crisi e hanno reinvestito nelle loro aziende, innovando”.
Anche noi pensiamo che il biometano possa rappresentare un’opportunità per un paese carente di materie prime energetiche e grande importatore e consumatore di gas naturale. E bene ha fatto il governo a incentivare questa nuova forma di energia che potrebbe contribuire a ridurre la nostra dipendenza dall’estero. Gattoni ne è più che certo e va sostenendo che entro il 2030 l’Italia potrebbe produrre 8 miliardi di metri cubi di biometano di matrice agricola, cioè poco più del 10% degli attuali consumi totali di gas a livello nazionale.
Sulle cifre occorrerebbe tuttavia maggior cautela, servirebbero maggiori dettagli. Gli esperti consultati sostengono che la soglia di economicità di un impianto di biometano non possa discostarsi molto da una produzione oraria di 500 metri cubi, equivalenti a 1.000 chilowattora elettrici. Qui sorge un problema enorme. Un impianto di biometano prodotto da biogas generato da rifiuti organici può raggiungere e superare la soglia di economicità, un impianto alimentato da scarti agricoli o da reflui zootecnici fa molta fatica a raggiungerla. L’impianto di Montello (nella foto), la società bergamasca che ha fatto da apripista, produce 3.750 metri cubi l’ora di biometano da rifiuti organici. I produttori di biomentano da Forsu (frazione organica del rifiuto solido) sono avvantaggiati perché, oltre a prendere l’incentivo di legge per il biometano, incassano denaro per lo smaltimento del rifiuto.
Per un impianto che produca oltre 500 metri cubi l’ora di biometano agricolo occorrono quantitativi di sottoprodotto nell’ordine delle decine di migliaia di tonnellate l’anno, spiega a Powernews un consulente del settore. Quante aziende agricole in Italia sono in grado di produrre scarti in quantità così rilevanti? L’azienda che non avrà sufficienti quantitativi di sottoprodotti, per aumentare il livello di produzione dell’impianto dovrà acquistare sul mercato biomassa agricola e scarti agroalimentari, con un aggravio di costi. Chi finanzierà questo extra-costo, lo Stato? E’ lì che si vuole arrivare con la martellante campagna mediatica di questi mesi? Agricoltori e allevatori rappresentano una massa elettorale molto contesa dalla Lega (si ricorderà l’evasione delle quote latte costata allo Stato italiano 4,5 miliardi e la condanna da parte della Ue per non avere riscosso dai “Cobas del latte” le multe per gli sforamenti di produzione avvenuti tra il 1995 e il 2009).
Abbiamo il sospetto che, con la scusa di presidiare un settore chiave per il futuro del paese, il vertice dell’Eni cerchi di ingraziarsi la Lega prendendo i classici due piccioni con una fava. Il gas è senz’altro strategico ed è destinato ad accompagnare – secondo gli esperti – la transizione energetica dalle fonti fossili a quelle pulite. L’Eni fa dunque bene ad occuparsi di biometano e a sostenerne la crescita, ma la sua (come del resto quella di Snam) sembra soprattutto una politica di annunci: grandi promesse, pochi fatti. Tutto ciò che è bio, tutto ciò che è green, tutto ciò che crea l’immagine di un’azienda sensibile alla difesa dell’ambiente, alla protezione dell’uomo e ai cambiamenti climatici aiuta a distogliere l’attenzione dalla grave situazione in Libia e dagli scandali in Nigeria e in Congo che coinvolgono direttamente, o chiamano in causa, il suo amministratore delegato, Claudio Descalzi.

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