I fondi sovrani degli Stati arabi, che investono nelle aziende occidentali la massa dei profitti realizzata con la vendita di gas e petrolio, vengono agitati da qualche giorno come uno spauracchio quasi a voler distogliere  l’attenzione dell’opinione pubblica dalle responsabilità della crisi finanziaria che ha provocato il crollo delle Borse di tutto il mondo. Non s’è sottratto a questa suggestione Silvio Berlusconi.

Il presidente del Consiglio ha accusato i fondi sovrani di progettare scalate ostili ai danni delle principali imprese  italiane come per trovare una giustificazione accettabile all’edulcorazione delle norme sulla passivity rule presenti nel Testo unico della finanza; norme che erano state studiate dall’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, oggi governatore di Bankitalia, per accrescere la contendibilità delle aziende, impedendo al consiglio d’amministrazione di una società sotto scalata di varare misure difensive dopo il lancio dell’Opa da parte dello scalatore.
Insomma, si prendono a pretesto la crisi finanziaria e la recessione economica per rilanciare le stesse idee protezionistiche di cui nel 2005 s’era fatto portabandiera l’allora governatore di Banca d’Italia, Antonio Fazio. Il quale aveva eletto a paladini dell’italianità del sistema un gruppo di finanzieri e immobiliaristi senza scrupoli. Se il progetto di Fazio fosse andato in porto, avremmo oggi a capo di due importanti banche nazionali, come Bnl e AntonVeneta, personaggi che sono stati accusati di aggiotaggio e associazione a delinquere, e avremmo magari un Ricucci azionista di controllo di Rcs.
Proprio per questo stupisce l’insistenza con cui, a tre anni da quei fatti, un politico intelligente come Pierluigi Bersani, ministro ombra dell’Economia del Partito democratico, e Matteo Colaninno, anch’egli del Pd, continuino a difendere l’ex Governatore.

Il piano del governo Berlusconi, che contempla  la possibilità d’intervento del Tesoro nel capitale delle banche,  non deve farci dimenticare i guasti dell’èra Fazio. Che può essere così condensata: asse di ferro tra il Governatore e il presidente di Capitalia Cesare Geronzi, ossia tra il vigilante e il vigilato trasformato nel suo principale consigliere; vuoto di controllo nei casi Bipop, Cirio, Parmalat, Popolare di Intra, Banca del Salento, solo per citarne alcuni; velleità dell’ex Governatore di diventare una sorta di novello Cuccia, demiurgo del sistema delle grandi imprese come lo era stato il banchiere di Mediobanca; sostegno alla scalata alla Telecom lanciata da Colaninno-padre, che spiega le posizioni odierne di Colaninno-figlio su Fazio e quelle di Bersani medesimo, che dell’"Opa del secolo" fu tra i più entusiasti supporter, insieme a Massimo D’Alema; via libera alla scalata a Montedison, che portò nel 2001 il colosso elettrico Edf, posseduto dallo Stato francese, al controllo di fatto del gruppo privato di Foro Buonaparte e la Fiat ad avventurarsi in un’operazione che la allontanava ulteriormente dall’auto proprio mentre i suoi conti sprofondavano; bidoni di spazzatura scaricati dalle banche sui risparmitori: dai bond argentini alle obbligazioni Cirio e Parmalat; dai prodotti May Way e 4You alle obbligazioni strutturate alle polizze Vita. Per non parlare dei derivati alle piccole imprese e agli enti locali.

Quando si torna a parlare, oggi, di difesa dell’interesse nazionale, quando ai politici cominciano a luccicare gli occhi all’idea di poter riagguantare il controllo di pezzi importanti del sistema bancario, bisogna tenere a mente questi fatti.
Diffondere l’idea di un pericolo imminente da parte dei fondi sovrani quando è noto che questi fondi non perseguono fini predatori, non hanno condotto finora operazioni ostili, non vanno a inimicarsi i Governi dei Paesi occidentali, ma anzi sono invitati dagli stessi Governi a mettere soldi nel capitale dei gruppi quotati in Borsa, serve solo ad alzare cortine fumogene, a individuare un nemico comune all’esterno del sistema finanziario mentre è anzitutto al suo interno – nell’affievolirsi dei controlli, nel conflitto d’interesse epidemico, nell’esasperante ricerca di un profitto di breve periodo, nel ricorso senza limiti alla leva finanziaria, nelle stock option super-miliardarie dei top manager, nei super-stipendi, nella follia di un’impresa sempre più asservita alla finanza e di una finanza sempre meno al servizio dell’impresa e sempre più mezzo di speculazione e affarismo – che vanno ricercate le cause del crollo.

Dove sono finiti i professionisti del liberismo che ancora qualche giorno fa si affannavano a predicare attraverso le colonne dei grandi giornali che la caduta dei mercati e i piani d’intervento pubblico non significano che il capitalismo sia morto, ma sono al contrario un segnale della sua vitalità? Nessuno di questi signori ha osato replicare a Berlusconi che non è alzando barriere contro chicchessia che si difendono le imprese dagli assalti esterni, non è impedendo alla Libia di acquisire il 2% di Eni che si protegge l’italianità del "cane a sei zampe". Anche perché al capitale di Eni, accanto alla Libia, partecipano con piccole quote i fondi sovrani di Arabia Saudita e Kuwait, che potrebbero approfittare del calo delle quotazioni per accrescere la loro partecipazione.
Eni, Enel e Finmeccanica, pur restando sotto il controllo dello Stato, sono oggi tre esempi di gruppi industriali pubblici efficienti, competitivi e redditizi, ma non dobbiamo dimenticare quanti e quali elementi di distorsione e di corruzione aveva trasfuso il regime partitocratico della Prima Repubblica nella gestione delle partecipazioni statali.

Se la politica andava in cerca di un pretesto per allungare le mani su Fondazioni bancarie e istituti di credito – e di tentativi in tal senso ne abbiamo già visti in questi anni – la crisi finanziaria le ha servito su un piatto d’argento un’occasione unica. I salvataggi pubblici si sono resi indispensabili in tutto il mondo per impedire nell’immediato il collasso dei sistemi bancari. I piani d’intervento dei Governi, negli Usa, in Europa e nel resto del mondo, si sono resi indispensabili per cominciare a ricreare sui mercati quel clima di fiducia che è la principale merce delle banche. Ma dove ci condurranno non sappiamo. Il piano per non far fallire Alitalia organizzato dal governo Berlusconi di certo non lascia ben sperare. E destano altresì allarme le voci che sono tornate a circolare su una possibile fusione Eni-Enel: operazione di potere senza alcuna logica industriale, da cui prenderebbe forma un mostruoso gigante a due teste senza eguali nel mondo.

Anche l’Iri, istituito dal fascismo nel 1933, sarebbe dovuto durare solo qualche anno. Eppure è sopravvissuto a un cinquantennio di Democrazia cristiana bruciando decine di migliaia di miliardi di denaro pubblico prima di essere messo in liquidazione negli anni ’90 su pressione della Comunità europea. Di certo, gli effetti dei salvataggi bancari sui debiti pubblici degli Stati europei potrebbero essere devastanti (rimando per questo all’articolo di Morya Longo su "Il Sole-24 Ore" del 15.10.2008, a pagina 3). Se la Germania dovesse reperire con l’emissione di titoli di Stato tutti i fondi che ha messo a disposizione del suo sistema bancario, il debito pubblico tedesco arriverebbe a rappresentare l’83% del Pil, a fronte dell’attuale 63-64 per cento. I cittadini europei, compresi quelli italiani, vedrebbero sfumare tutti i sacrifici sostenuti in questi anni attraverso aumenti di imposte e tagli alla spesa pubblica per il risanamento dei bilanci statali. Nel medesimo articolo leggiamo che il rapporto debito-Pil della Francia, oggi del 66%, salirebbe all’84%, quello della Gran Bretagna passerebbe dal 46% al 66%, quello della Spagna dal 37% al 46%, mentre per quanto riguarda l’Italia, il cui rapporto deficit-Pil è stimato tra il 103% e il 106%, bisogna vedere quali saranno i costi effettivi del piano recentemente approvato dal Consiglio dei ministri. Quando si ricomincia a discutere di intervento dello Stato nell’economia bisogna far tesoro del passato e aver chiari costi e benefici per la collettività.