Con il fiume di denaro pubblico che sta per riversarsi in Europa mi chiedo come si comporterà il governo italiano con le aziende che hanno portato fuori dall’Italia i quartieri generali.Me lo chiedo dopo avere appena letto che il governo danese ha deciso di escludere dagli aiuti le aziende che hanno domicilio fiscale all’estero. Copenaghen ha destinato altri 100 miliardi di corone (13 miliardi di euro) alle imprese colpite dal crollo dei ricavi a causa della pandemia, che si sommano ai 300 già stanziati. Non concederà però aiuti alle società domiciliate nei paradisi fiscali presenti nella lista nera della Ue.
Non solo: le aziende che avranno accesso ai fondi pubblici dovranno impegnarsi a non distribuire dividendi e a non effettuare acquisti di azioni proprie nel 2020 e nel 2021. Sarebbe il colmo in effetti se il denaro dei contribuenti, concesso a tassi irrisori o a fondo perduto, dovesse finire nelle tasche degli azionisti o a società che non versano un centesimo all’erario.
I paesi presenti nella black list della Ue sono attualmente dodici: Figi, Guam, Isole Cayman, Isole Vergini degli Stati Uniti, Oman, Panama, Palau, Samoa, Samoa americane, Seychelles, Trinidad e Tobago e Vanuatu. La questione dovrebbe essere tuttavia sollevata anche per i paradisi europei. Forse che Irlanda, Isole del Canale, Londra, Lussemburgo, Liechtenstein, Paesi Bassi, Principato di Monaco, Svizzera sono più trasparenti di altri paradisi fiscali? Si, certo, questi e altri Stati si sono per così dire redenti accettando il regime di scambio automatico obbligatorio di informazioni tra le autorità fiscali aderenti al Common reporting standard (lo standard di segnalazione comune) sviluppato dall’Ocse e dal G20. Le nuove misure poste a prevenzione dell’evasione fiscale impongono (cito un documento del Crédit Suisse) che gli istituti finanziari siano “tenuti a notificare alla propria amministrazione fiscale locale le informazioni sui conti detenuti da persone fisiche e persone giuridiche (inclusi trust e fondazioni) non residenti. L’amministrazione fiscale locale trasmette a sua volta le informazioni su base annua ai paesi di residenza fiscale dei titolari dei conti […]. Al fine di acquisire un ampio ventaglio di informazioni, lo standard prescrive l’obbligo di notifica non solo per le banche di deposito, ma anche per enti di custodia, società d’investimento specifiche e determinate compagnie assicurative. Il tipo di informazioni sul conto che devono essere notificate include saldi del conto, interesse, dividendi e ricavi delle vendite e ammortamento dei rimborsi derivanti da investimenti finanziari”.
Ma siamo proprio sicuri che questo basti a far cadere il segreto bancario in paesi le cui economie prosperano accogliendo capitali anche di provenienza illecita o criminale? Siamo sicuri che le strutture costituite in questi paesi per vigilare sul riciclaggio di denaro sporco, sui canali di finanziamento del terrorismo internazionale e sul denaro proveniente dalle mafie non siano impalcature fragili e aggirabili? Al riguardo ho più di un dubbio. Ricordo una lunga conversazione a Lugano con un noto professionista al quale chiedevo come avrebbe fatto il Canton Ticino ora che gli italiani sono obbligati a far emergere, a seguito delle nuove regole, i patrimoni esportati illegalmente. La sua risposta fu disarmante: “Le banche ticinesi hanno campato sui capitali italiani per decenni, si vede che adesso si rivolgeranno alle borghesie dei paesi emergenti dell’Asia e dell’Africa”. D’altro canto per capire di cosa sono capaci le grandi banche internazionali per occultare i patrimoni di origine illecita basta aver seguito un po’ le vicende di Hervé Falciani, l’ingegnere francese di origine italiana che ha collaborato con le autorità fiscali di molti paesi fornendo loro le informazioni sui conti segreti di oltre 100mila evasori fiscali ottenute violando i sistemi informatici della Hong Kong and Shanghai Banking Corporation di Ginevra (vedi “La cassaforte degli evasori”, di Hervé Falciani e Angelo Mincuzzi, Chiarelettere, 2015vedi “La cassaforte degli evasori”, di Hervé Falciani e Angelo Mincuzzi, Chiarelettere, 2015).
La verità è che anche all’Europa i paradisi fiscali fanno comodo, soprattutto alle multinazionali europee. Pensate quante società a capitale italiano sono migrate ad Amsterdam e a Londra. Pensate se il nostro governo nell’erogare aiuti di Stato dovesse discriminare un gruppo come Fca, che ha sede legale in Olanda e domicilio fiscale in Gran Bretagna. I sindacati e parte del mondo politico gli si rivolterebbero contro. Chi potrebbe impedire a quel punto alla casa automobilistica della famiglia Agnelli-Elkann di ridimensionare o chiudere le fabbriche in Italia per trasferirle in paesi a fiscalità vantaggiosa? Scenari improbabili. Fca, la cui presenza industriale negli Usa e in Brasile è più forte che in Italia, potrà attingere risorse pubbliche da più fonti: dal governo Conte, dal governo Trump e dal governo Bolsonaro.
Resta il problema se gli aiuti andranno distribuiti in modo indiscriminato o selettivo alle imprese residenti in paesi-rifugio.