Se Donald Trump fosse rieletto presidente degli Stati Uniti d’America, la più grande potenza economica e militare del mondo correrebbe il rischio di un’involuzione autoritaria, entrando in una fase di prolungato declino (nella foto l’assalto al Capitol Hill, Washington, 6 gennaio 2021).A sostenerlo è l’Ispi (l’Istituto di studi di politica internazionale, che ha sede a Milano nello storico Palazzo Clerici) nel suo rapporto di geopolitica su come sarà il mondo nel 2024, dal titolo “La grande frammentazione”, alla cui stesura hanno partecipato con contributi personali i suoi più prestigiosi analisti e commentatori. Non parliamo di un covo di complottisti. Parliamo di una istituzione che annovera tra i suoi soci, accanto a primari gruppi industriali, bancari e finanziari nazionali e internazionali, accanto a Confindustria e a Banca d’Italia, alcune tra le più grandi imprese interamente possedute o controllate dallo Stato, da Cassa Depositi e Prestiti a Ferrovie, da Eni a Snam, da Saipem a Leonardo. Un serbatoio di pensatori vicino al governo, saldamente ancorato alla tradizione atlantica dell’Italia, di cui è presidente l’ambasciatore Giampiero Massolo, già direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, il Dis, l’organo di coordinamento delle nostre agenzie di intelligence che riporta direttamente al presidente del Consiglio.

L’elezione di Trump nel novembre 2024 è un evento sempre più probabile nonostante i vari procedimenti giudiziari a suo carico (tra questi, l’indagine della procuratrice di New York su transazioni finanziarie dubbie interne al gruppo Trump, il processo a seguito dell’assalto al Capitol Hill che l’ex presidente repubblicano avrebbe incoraggiato, secondo l’accusa, nel tentativo di stravolgere l’esito delle elezioni del 2020 vinte da Joe Biden e la recente sentenza della Corte suprema del Colorado di escluderlo dalle primarie di questo Stato dell’Ovest). L’impantanarsi della guerra in Ucraina, dopo tutti gli aiuti in denaro e in mezzi elargiti a Kiev in questi due anni dall’America, dai paesi Nato e dalla Commissione europea, e le crepe apertesi di recente nell’elettorato democratico e nella stessa amministrazione americana per non avere impedito a Israele di bombardare in modo indiscriminato la Striscia di Gaza, rendendosi di fatto corresponsabile del massacro di migliaia di civili palestinesi, hanno fatto scendere il consenso di Biden nei sondaggi. E anche se una condanna di Trump potrebbe indurre una parte dell’elettorato di destra a non votarlo, è un fatto che un certo numero di suoi potenziali finanziatori stia riallacciando i rapporti con lui, scommettendo sulla sua vittoria.

La domanda che si pone l’Ispi, affidando la risposta a un contributo di Mario Del Pero (che insegna Storia internazionale e della politica estera statunitense a Science Po ed è Senior associate research fellow dello stesso Ispi), è cosa ci si dovrebbe aspettare da una nuova presidenza Trump. E’ possibile che l’America vada incontro a una deriva autoritaria, a una sorta di “dittatura Trump”?  Sì, ammette lo storico senza giri di parole: “Abbiamo avuto fin troppe prove dell’analfabetismo istituzionale di Trump e delle sue inclinazioni autoritarie a partire dalla tentata eversione successiva al voto del 2020, culminata poi nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. Quella statunitense, a volte lo dimentichiamo, è una democrazia vecchia e affaticata, con una costituzione ossuta e spesso anacronistica, un sistema elettorale che premia una minoranza di votanti (al Senato, ad esempio, gli elettori del Wyoming contano circa 70 volte quelli della California) e un sistema di pesi e contrappesi che funziona molto meno bene di quanto non si creda”. Aggiunge lo studioso: “La delegittimazione della politica e delle stesse istituzioni spiega a sua volta molto sia della popolarità del messaggio antipolitico (e anti-élites) di Trump sia della loro fragilità nel fronteggiare una eventuale deriva autoritaria. Soprattutto, l’ex presidente ha già fatto chiaro che non sottostarà ai vincoli e alle costrizioni della sua prima esperienza presidenziale”. Trump ha detto che in caso di rielezione si circonderà esclusivamente di persone di sua fiducia, facendo piazza pulita della burocrazia federale “che avrebbe costituito il principale impedimento a una rottura radicale nel suo primo mandato”.

Del Pero prova anche a immaginare quali potrebbero essere i suoi principali “ambiti d’azione” in caso di successo elettorale, individuandone cinque: il rilancio delle guerre commerciali e delle politiche protezionistiche che potranno colpire anche partner degli Stati Uniti (come sosteneva Henry Kissinger, essere nemici degli americani è pericoloso, ma esser loro amici può risultare altrettanto letale per i cambiamenti cui può andare incontro la politica estera a “stelle e strisce”); il sostegno e il sussidio all’industria statunitense senza discriminare i settori responsabili delle emissioni di gas sera, maggiormente coinvolti nei cambiamenti climatici; l’appoggio all’industria estrattiva sia per l’autosufficienza energetica del paese sia per la riaffermazione del primato americano su scala globale; politiche di sicurezza draconiane, rivolte principalmente contro l’immigrazione dal Messico; azioni ad alto contenuto simbolico capaci di soddisfare l’elettorato di ultra-destra.

“Tutto ciò – conclude Del Pero – metterà ancor più sotto pressione la fragile democrazia statunitense. Provocherà la reazione degli stati e delle (tante) municipalità governati dai democratici, esasperando una dialettica conflittuale che sta da tempo mettendo a dura prova il federalismo americano. Acuirà le tensioni dentro una società polarizzata e divisa ben oltre il limite di guardia, con il conseguente, altissimo rischio di derive violente. E concorrerà a processi di frammentazione dell’ordine globale, in atto già da tempo (e indipendentemente da Trump). Con il rischio, concreto, ma ovviamente non certo, di una spaventevole involuzione autoritaria della repubblica statunitense”.

Da faro della democrazia liberale, gli Usa diverrebbero in questo scenario tanto cupo quanto ipotetico l’epicentro della crisi della democrazia su scala mondiale, l’emblema di un nuovo autoritarismo. Come ha scritto Giorgio Galli nel suo ultimo libro, L’anticapitalismo imperfetto (Kaos, 2020), uscito quasi in coincidenza con la sua morte, “la democrazia dei nostri successori non sarà quella dei nostri predecessori”. Galli riprende con queste parole le teorie di quello che egli considerava il più grande politologo del secolo scorso, Robert Dahl, il quale “parte da una certezza per giungere all’incertezza”. La certezza è che la democrazia si trasforma, l’incertezza è sul come si trasforma. La democrazia rappresentativa che abbiamo conosciuto in Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale potrebbe involvere, secondo Galli, in “una oligarchia per la quale Dahl usa l’espressione di Platone ‘governo dei custodi’” oppure potrebbe progredire in “una contrapposta evoluzione della stessa democrazia, con un maggior controllo dei cittadini sul potere”. Per ora sembra voglia imboccare la prima direzione. Capiremo meglio con le elezioni presidenziali americane del novembre 2024 dove andrà a parare.