Già l’invasione dell’Ucraina aveva provocato l’isolamento della Federazione russa all’interno del Consiglio artico, l’organizzazione internazionale fondata nel 1996 da questi otto paesi, che si occupa della gestione dei problemi ambientali e di navigazione nella regione e della tutela dei diritti delle popolazioni indigene come gli Inuit e i Sami che sono le prime vittime dei cambiamenti climatici al Polo Nord e del suo sfruttamento. Ora la situazione potrebbe aggravarsi per la perdita di neutralità da parte di Svezia e Finlandia, che durante la guerra fredda avevano mantenuto buone relazioni tanto con il blocco occidentale quanto con quello orientale. Non è tanto il timore di un’invasione dalla Russia a spingerli sotto l’ombrello del Trattato Nord Atlantico – anche se il quotidiano Bild ha scritto di recente, citando un documento del ministero della Difesa tedesco, che Mosca starebbe progettando un’offensiva sull’Europa – quanto il rischio che infrastrutture strategiche come gasdotti e cavi per il trasporto di dati e di elettricità posati sui fondali del Baltico entrino nel mirino dei sommergibili russi e mettano in ginocchio l’economia dei paesi scandinavi.
Quanto vale l’Artico per Mosca
Il giornalista Marzio Mian, autore di grandi reportage sull’Artico, scrive in Guerra bianca (Neri Pozza, 2022) che con l’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato il Consiglio artico è ormai a composizione euro-atlantica ed è di fatto il braccio politico dell’Alleanza. Dopo l’invasione dell’Ucraina, la Nato ha adottato una dottrina «a trazione nordica» prestando sempre più attenzione alle manovre in corso oltre il Circolo polare dove sono ammassati circa i due terzi dell’arsenale nucleare russo e da cui i missili russi potrebbero colpire l’Occidente percorrendo la traiettoria più breve.
Gli interessi vitali del Cremlino nella regione, dove ha sede nella penisola di Kola il quartier generale della Flotta del Nord (la marina militare russa), comprendono inoltre l’industria per la produzione di idrocarburi e quella per la liquefazione del gas naturale sviluppatasi nella parte settentrionale della Siberia anche con capitali cinesi, giapponesi e francesi, divenuta di fondamentale importanza da quando i paesi europei, in risposta all’invasione dell’Ucraina, hanno quasi smesso di acquistare il metano russo che fino al 2022 arrivava in abbondanza nel nostro continente attraverso i tubi di Gazprom.
Petrolio e gas vicino al polo Nord
Pur ospitando soltanto l’1% degli abitanti della Federazione russa, l’Artico rappresenta l’11% del suo Pil e il 22% delle sue esportazioni. Qui sgorga il 90% del gas e il 60% del greggio prodotto nell’intera Russia, senza contare le ricchezze non sfruttate che giacciono in fondo al mare, protette dalla calotta: non solo idrocarburi (il 13% del petrolio e il 30% del gas ancora da scoprire a livello mondiale si trovano nell’Artico), ma anche una varietà di metalli rari che trovano impiego in diversi campi dell’industria (telecomunicazioni, aerospazio, elettronica di consumo, i settori coinvolti nella transizione energetica), oltre a uranio, oro, diamanti e alle grandi quantità di pesce peraltro in aumento per le migrazioni di varie specie marine dalle acque surriscaldate dei mari del Sud. Quasi 22mila chilometri di coste artiche e quasi la metà dell’Oceano glaciale ricadono sotto la giurisdizione della Federazione russa, che continua a espandere i suoi presidi militari oltre il sessantaseiesimo parallelo e a rivendicare l’ampliamento della sua zona economica esclusiva molto oltre le 200 miglia nautiche consentite dalla Convenzione Onu di Montego Bay sul diritto del mare.
Il Cremlino è assolutamente determinato a difendere lo spazio artico, dove ha installato radar di ultima generazione che possono individuare un obiettivo a una distanza tra 600 e 1.200 chilometri, e ha voluto lanciare un monito al mondo facendo piantare il 2 agosto 2007 a 4.200 metri di profondità, da due mini sommergibili dotati di braccio meccanico, una bandiera di titanio della Russia sulla verticale del Polo Nord: una presa di possesso simbolica ma neanche tanto; la dimostrazione di un ritorno allo status di grande potenza. Nelle enunciazioni di politica internazionale del governo russo, l’Artico segue infatti per importanza il “vicino estero”, gli Stati come l’Ucraina, ex satelliti dell’Unione Sovietica, che Mosca fa ricadere nella sua sfera d’influenza pur essendo indipendenti da oltre tre decenni.
Nato e Usa tra Alaska e Groenlandia
Il rischio è che l’allargamento della Nato e degli americani nella regione, dove gli Usa dispongono di importanti basi militari in Alaska e in Groenlandia, acuisca la sindrome della fortezza assediata di cui è affetto Vladimir Putin: il timore che forze ostili provenienti dall’esterno vogliano violare i confini del paese, mettendone a repentaglio la sicurezza. Spinto da queste preoccupazioni, il presidente russo potrebbe interpretare la presenza sempre più incombente dell’Alleanza atlantica nell’Artide come una prova della volontà degli Stati Uniti di accerchiare la Federazione nel Grande Nord, il suo confine settentrionale. Uno scenario che un domani potrebbe indurlo a ricorrere all’uso della forza.
In un articolo del maggio 2019 sul discorso dell’allora segretario di Stato Mike Pompeo a una riunione del Consiglio artico in Finlandia, il Washington Post rimarcava che le ambizioni territoriali della Russia nell’area polare «potrebbero trasformare l’Artico in una nuova Ucraina», ovvero potrebbero spingerla ad annettersi ciò che considera già oggi una sua proprietà. In quella stessa occasione Pompeo esortò le «…nazioni che vogliono veramente una navigazione libera e aperta…a riunirsi e a lavorare su questo obiettivo». E concluse con una velata minaccia: «Coloro che sceglieranno un’altra strada, faremo tutto il possibile per assicurarci che non impediscano ciò che abbiamo stabilito come nostri obiettivi».
Le relazioni interrotte nel Consiglio artico
Oggi, a dieci anni dall’annessione della Crimea e a due dall’invasione dell’Ucraina, una cooperazione tra Mosca e Washington nel Consiglio artico non è neanche lontanamente ipotizzabile, almeno nel breve-medio periodo. Secondo le previsioni degli esperti intervenuti al festival dell’Osservatorio artico (svoltosi a Genova a fine novembre, al quale è anche intervenuto l’ambasciatore Carmine Robustelli, ministro plenipotenziario, inviato speciale del governo italiano per l’Artico), per un ritorno alla collaborazione potrebbero volerci dieci anni.
Anche se il Cremlino ha inviato segnali positivi alla nuova presidenza del Consiglio (assunta dalla Norvegia nella tarda primavera 2023), ma a condizione di non essere ostracizzato dagli americani, il rischio di una spaccatura, con la costituzione di un Consiglio parallelo russo-asiatico con dentro i cinesi, non è affatto improbabile.
La competizione Cina-Stati Uniti
Anche in questa parte di mondo, infatti, il migliore alleato di Putin è la Cina di Xi Jinping, osservatore permanente del Consiglio artico insieme con Francia, Germania, Italia (che ha una base di ricerca scientifica nelle Svalbard e una presenza di Eni nel Mare di Barents norvegese e russo e in Alaska), oltre a Giappone, Olanda, Polonia, India, Corea del Sud, Singapore, Spagna, Svizzera e Gran Bretagna. La Cina accusa il governo americano di approfittare della guerra in Ucraina per espandersi nell’Artico e per dominarlo e gli Usa accusano la Cina di collaborare con la Russia nell’area artica per sovvertire l’ordine internazionale.
Gli Usa acquistarono l’Alaska nel 1867 dall’impero zarista per 7,2 milioni di dollari, mentre erano al culmine della loro espansione territoriale, per accrescere la loro influenza nel Pacifico sottraendola all’impero britannico e per allontanare il confine dell’unica potenza europea il cui territorio si addentrava nel continente americano (la Russia). All’epoca, quello che poi diverrà il quarantanovesimo Stato federato degli Usa, era considerato una scatola di ghiaccio, una terra inospitale; la scoperta del petrolio avverrà un secolo dopo.
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Oggi l’amministrazione americana punta ad acquisire la leadership dell’Artico e a valorizzarne le risorse rimettendo anzitutto in marcia la produzione petrolifera in Alaska. Su quest’ultimo punto la politica di Joe Biden appare contraddittoria. Nel settembre 2023 il presidente americano ha annullato sette concessioni in Alaska rilasciati dal suo predecessore a pochi giorni dalla fine del suo mandato, ma dopo averne accordato tre alla ConocoPhillips nell’ambito di un progetto di sfruttamento di greggio e gas del valore stimato di 8 miliardi di dollari. Segno che alle pressioni della lobby petrolifera non sfuggono nemmeno i democratici. Se a vincere le elezioni del novembre 2024 sarà Donald Trump si può star certi che le trivellazioni nell’artico Usa riprenderanno alla grande. Il disastro della Exxon Valdez che, incagliata nello stretto di Prince William, a un’ottantina di chilometri a Sud-Est di Anchorage, riversò in mare trentacinque anni fa 40 milioni di litri di petrolio è un ricordo lontano.
Gas e petrolio di scisto bombe per l’ambiente
Del resto, sulle questioni dell’inquinamento e delle emissioni di gas serra le amministrazioni americane non vanno molto per il sottile. I governi degli Stati Uniti hanno sacrificato l’ambiente sull’altare dell’autonomia energetica, alla quale hanno dato un apporto fondamentale lo shale gas e lo shale oil (gas e petrolio catturati da scisti argillosi permeabili, con il metodo della fratturazione idraulica, il fracking).
Lo sviluppo dell’industria del gas liquefatto, di cui l’America è oggi tra i primi esportatori al mondo, è avvenuto senza prestare attenzione alla pericolosità geologica del fracking e al rischio di inquinamento delle falde acquifere e di emissioni nocive. L’acqua immessa nel sottosuolo a pressioni elevate, per fratturare la roccia e liberare il gas e il petrolio intrappolati al suo interno, è infatti potenziata con additivi chimici. E un secondo livello di contaminazione avviene nella fase di estrazione, quando l’acqua entra a contatto con il gas e i metalli pesanti presenti nella roccia. Il liquido che si forma ritorna in superficie senza essere smaltito, contaminando riserve idriche e corsi d’acqua. Non solo: durante il trasporto via nave del gas liquefatto e durante il processo di rigassificazione vengono liberati quantitativi consistenti di metano incombusto, che assieme all’anidride carbonica è il maggior responsabile dell’effetto serra.
Le questioni ambientali legati allo sfruttamento dell’Artico
Sulle questioni ambientali gli Usa fanno il paio con la Russia, che in Siberia ha prodotto un inquinamento mostruoso, infliggendo alla natura danni incalcolabili. I disastri verificatisi in Russia negli ultimi decenni, quello del 1994 nella Repubblica dei Komi, a ovest degli Urali (dove 100mila tonnellate di petrolio fuoruscirono da un oleodotto, riversandosi nei fiumi), e quello del 2020 a Noril’sk, nel territorio di Krasnojarsk (dove lo sversamento di 21mila tonnellate di diesel all’interno di un grande centro di produzione mineraria ha contaminato il circostante sistema fluviale), sono purtroppo gli ultimi di una lunga serie cominciata con l’industrializzazione nell’era sovietica. E lo sfruttamento dell’Artico non farà che aggravare la situazione. I processi produttivi per l’estrazione di metalli come cobalto, litio, nickel, palladio, platino, di cui abbonda il Polo Nord, sono spesso incompatibili con l’equilibrio ambientale. Per garantire la transizione energetica dell’Occidente e assicurargli le materie prime necessarie a sviluppare un’economia “verde”, si va a inquinare l’Artico accelerando lo scioglimento del permafrost che è al tempo stesso effetto e causa del riscaldamento globale per le quantità di metano e anidride carbonica imprigionate al suo interno (oltre a virus, veleni e altro), che liberate nell’atmosfera ingigantiscono l’effetto serra.
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I vantaggi della rotta transpolare
Anche la Cina punta ad aggiudicarsi, forte del rapporto con la Russia, una fetta consistente delle risorse artiche e a controllare i corridoi transoceanici che si sono aperti per effetto del riscaldamento globale: il passaggio a Nordovest (il North-west passage, che costeggia l’Alaska, l’Arcipelago artico canadese e la Groenlandia) e quello a Nord-Est (la Northern sea route, che costeggia la zona economica esclusiva della Russia siberiana fino al Mare di Barents, per poi biforcarsi verso la Finlandia e l’Islanda).
Lungo questi due grandi corridoi marini i cargo e le metaniere possono già oggi spostarsi tra l’Atlantico e il Pacifico, in entrambi i sensi, senza dover finire a Suez o a Panama. Le distanze tra Asia ed Europa, come quelle tra Shanghai e Rotterdam e tra Vladivostock e San Pietroburgo, potranno essere coperte con regolarità dalle società di navigazione cinesi e russe, con un consistente abbattimento dei tempi di percorrenza e delle emissioni di CO2. E attraverso il controllo militare della rotta di Nord-Est la Russia potrà anche mettere in sicurezza i suoi confini settentrionali resi vulnerabili dalla contrazione della calotta polare. Entro qualche anno circa il 20% delle navi cinesi dovrebbe transitare per le rotte polari, trasportando non solo materie prime energetiche ma anche crescenti quantitativi di pesce artico destinato a soddisfare i consumi alimentari del miliardo e quattrocento milioni di abitanti della Repubblica popolare, e lo stesso varrà per l’India.
Accanto a questi due passaggi è inoltre prevista, per la fusione della massa glaciale, l’apertura di una terza arteria marina, la rotta transpolare, che permetterà alle grandi navi da trasporto di attraversare l’Oceano artico dallo stretto di Bering all’Islanda transitando vicino al Polo Nord, con tempi di navigazione ancora più ridotti e quindi con costi ancora più vantaggiosi.
È una prospettiva che modifica radicalmente la geopolitica dei mari, tema sempre più al centro delle relazioni internazionali e determinante per il commercio mondiale.
Per di più la rotta transpolare sarà esterna alle giurisdizioni degli Stati costieri dell’Artico, quindi esente dagli adempimenti burocratici e dai dazi imposti da questi paesi, e al riparo dagli attacchi della pirateria che infesta i tratti critici delle rotte petrolifere come lo Stretto di Malacca. E quanto conti la sicurezza dei commerci marittimi lo stiamo vedendo in questi giorni. Oltre cento mercantili diretti nel Mediterraneo, che avrebbero dovuto attraversare lo stretto di Bab al Mandeb per risalire il Mar Rosso, sono stati costretti a deviare verso Sud e a circumnavigare l’Africa per sfuggire alle incursioni del gruppo yemenita degli Houthi in risposta agli attacchi di Israele alla Striscia di Gaza. Una minaccia che ha spinto la Casa bianca a schierare alcune sue navi da guerra nelle acque di fronte allo Yemen a protezione degli scambi tra continente asiatico e Occidente e che sta facendo salire la tensione tra Stati Uniti e Iran (da cui gli Houthi ricevono armi e sostegno politico).
L’espansionismo cinese
Ancora più dell’aggressività della Russia, a mettere in allarme gli americani nella regione polare è l’espansionismo della Cina, che nonostante i circa mille chilometri che la separano dal Polo Nord si considera un paese quasi artico per gli effetti delle alterazioni climatiche sul suo territorio causati dalla fusione della calotta.
La Cina, con cui Putin ha dovuto scendere a patti fin dal 2014 dopo le prime sanzioni dell’Occidente contro Mosca, sta contribuendo a ridefinire l’Artico come spazio globale. La Repubblica popolare ha costituito un istituto di ricerca polare nel 2009 e ha finanziato diverse spedizioni scientifiche che sono spesso un mezzo per mimetizzarne la presenza militare. Nello spazio artico ha investito 90 miliardi di dollari a partire dal 2012.
Il Pentagono ritiene che il crescente attivismo di Pechino possa sfociare in una sua presenza militare e nel dispiegamento di suoi sottomarini nell’Artico come misura deterrente contro un possibile attacco nucleare. Fu sempre Mike Pompeo a dichiarare che «il modello di investimenti cinesi in altre parti del mondo suggerisce che le comunità indigene dell’Artico potrebbero rimanere intrappolate nel debito, nella corruzione, nelle infrastrutture scadenti, nella militarizzazione e nella distruzione economica».
Le misure punitive contro la Russia potrebbero rappresentare una grande opportunità per le ambizioni di potenza della Repubblica popolare. In caso di cedimento dell’economia russa, le imprese e le banche cinesi potrebbero subentrare a quelle occidentali che hanno dovuto abbandonare Mosca per le sanzioni, offrendo al Cremlino le tecnologie, i crediti e i capitali per il completamento dei suoi mega-investimenti nell’Artico e delle connesse infrastrutture logistiche e di trasporto. Per Putin sarebbe come accettare l’iscrizione di una pesante ipoteca sui principali asset energetici della Russia a favore della Cina. (riproduzione riservata)