L’Eni figura anche quest’anno nella classifica della Nielsen sui primi cento investitori di pubblicità in Italia. Nel 2015 l’impresa petrolifera controllata dallo Stato si è piazzata al sessantaseiesimo posto con una spesa di 16,5 milioni di euro (dato che non comprende le inserzioni su motori di ricerca e social network). L’amministratore delegato Claudio Descalzi (nella foto) ha ridotto di oltre due terzi l’importo che il suo predecessore, Paolo Scaroni, aveva investito nel 2013 su tv, giornali cartacei e giornali on line, quando il logo del “Cane a sei zampe” campeggiava su tutte le più grandi testate e nei più popolari programmi televisivi, con una spesa monstre complessiva di 53,8 milioni di euro. Appena nominato al vertice, nel 2014, Descalzi ha tagliato il budget di quasi la metà, riducendolo a 23,5 milioni. E al termine del 2015 l’ha sforbiciato di un altro 30 per cento. Resta il fatto che 16,5 milioni sono ancora comunque una bella cifra e che l’Eni è l’unica impresa dell’energia a comparire nella classifica dei top spender italiani. La società non produce beni di largo consumo, che necessitano di un forte sostegno pubblicitario. I barili di greggio non si vendono al supermercato, e nemmeno il gas naturale importato da Russia, Algeria e Libia. Gli unici servizi dell’Eni destinati al grande pubblico sono la distribuzione di metano e la vendita di elettricità al dettaglio e l’erogazione di carburanti alla pompa. Ma come mai le altre società presenti in questi settori, alcune delle quali multinazionali del calibro dell’Eni, non hanno budget così consistenti? Anche se Descalzi ha voltato pagina e i fasti dell’era scaroniana sembrano cessati, una risposta sarebbe quanto mai opportuna, se non altro per fugare il sospetto che questi soldi non servano ad ingraziarsi la stampa. Che com’è noto versa in cattive acque.