L’Ilva di Taranto? “L’Eni potrebbe essere l’acquirente ideale”. La proposta compare in una breve intervista rilasciata a “Repubblica” da Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia dal luglio 2015 e autorevole esponente locale del partito democratico.
Il governo è d’accordo? “Il premier Renzi insieme col sottosegretario De Vincenti e il ministro Guidi, devono avere fiducia nel sottoscritto”, risponde il governatore. E aggiunge: “A mio parere ci stanno pensando”. E l’Eni è d’accordo con una proposta che farebbe ritornare indietro di venticinque anni il gruppo petrolifero? Ribatte Emiliano: “Non ho avuto contatti con la multinazionale, comunque ho l’impressione che sia favorevole a questo progetto”. La politica assistenzialistica dell’Eni è cessata a partire dagli anni Novanta, con la sua trasformazione in società per azioni ed il suo successivo collocamento in Borsa da parte dello Stato. Da quel momento il gruppo ha venduto tutto ciò che non era direttamente funzionale all’industria degli idrocarburi e ha sempre più concentrato i propri investimenti nel petrolio e nel gas, su scala internazionale. Nel piano di ristrutturazione illustrato di recente ai mercati dall’amministratore delegato Claudio Descalzi figura anche la dismissione delle raffinazione, ed è di qualche mese fa la notizia che il gruppo potrebbe disfarsi persino della petrolchimica. Proprio per questo le parole di Emiliano risultano incomprensibili. Non avrebbe alcun senso per un’impresa petrolifera cedere attività storiche come le raffinerie e la chimica per diversificare nella siderurgia.
Il governo non deve interferire nelle decisioni dell’Eni, ma deve limitarsi ad esercitare i suoi poteri di indirizzo e controllo nelle sedi deputate: il consiglio d’amministrazione e l’assemblea degli azionisti. Sarebbe grave se – come Emiliano lascia intendere – il governo Renzi stesse meditando di salvare l’Ilva con capitali Eni e con il favore già acquisito di Descalzi. L’azienda potrebbe subire pesanti contraccolpi economici e borsistici. La distanza tra la politica e l’Eni, già ridottasi negli ultimi dieci anni, tenderebbe ad accorciarsi ulteriormente. E a pagarne le maggiori conseguenze sarebbe proprio lo Stato che, in quanto azionista di controllo, si esporrebbe al rischio di una perdita di valore del suo principale asset industriale.